“TANTUM AURORA EST”: SIAMO APPENA ALL’AURORA

50 Anni dall’inizio del 2°
Concilio Vaticano - 11 Ottobre 1962 / 2012



Miei Cari,
Padre Conciliare:
Mons. AURELIO MARENA
Vescovo di Ruvo e Bitonto (1950-1978)
frequentavo il 2° liceo classico presso il Seminario Regionale e si riaccendevano le speranze in una Chiesa che potesse uscirne più bella, ringiovanita. L’impegno del grande vescovo Mons. Aurelio Marena fu notevole nel preparare la sua diocesi di Ruvo e Bitonto all’evento. I gruppi parrocchiali, stimolati dal fervore dei giovani preti e dall’Azione Cattolica divennero fermento salutare in una comunità che stava quasi morendo in una sclerosi paurosa. Si avvertiva una gioia e un entusiasmo perfino modulato nelle note di un Inno-invocazione: “O eterno Pastore, Tu volesti affidare…” composto per la circostanza da don Mario Iurilli. E fu proprio durante gli anni del Concilio che molti di noi seminaristi raggiungemmo per la prima volta Roma: era il 1o dicembre 1963. Mons. Marena volle che anche i suoi clerici fossero presenti in S. Pietro per la beatificazione di Nunzio Sulprizio da lui portato agli onori degli altari. Fu un’aurora luminosa per la Chiesa. Quel mattino dell’11 ottobre 1962 in occasione dell’apertura del Concilio, rimanemmo incollati al televisore, impressionati dalla sfilata di circa tremila vescovi, pronti a riscoprirsi attori e fautori di una Chiesa che prendendo coscienza di sé - come affermò Paolo VI - sarebbe diventata missionaria. E dissentendo da alcuni profeti di sventura, Giovanni XXVIII affermava che il Concilio e quindi la Chiesa avrebbe continuato a custodire e insegnare in forma più efficace il deposito della dottrina cristiana: “tantum aurora est” fu l’affermazione che colpì a riaccese le speranze di noi giovani seminaristi del tempo. Fedeltà e rinnovamento fu l’intuizione del Papa buono che purtroppo non avrebbe portato a termine l’evento conciliare. Sarebbe stato Paolo VI a portarlo a compimento l’8 dicembre del ‘65 (una nota personale: il 5 dicembre Mons. Marena tornò per una giornata da Roma per conferirmi la S. Tonsura). Le parole ispirate di papa Montini riaccesero ancor più la speranza di una Chiesa in fermento: “Oh, caro e venerato Papa Giovanni, siano rese lodi a te, che per divina ispirazione, è da credere, hai voluto e convocato questo Concilio, aprendo alla Chiesa nuovi sentieri e facendo scaturire sulla terra onde nuove di acque sepolte e freschissime della dottrina e della grazia di Cristo signore”. In questi 50 anni siamo più volte tornati a misurarci sul dettato del Concilio; tanto c’è ancora da assimilarlo, miei Cari, perché la Chiesa ne esca sempre più giovane e più bella come l’ha resa Giovanni Paolo II e l’amato Papa Benedetto insieme ai nostri vescovi che ne hanno tenacemente incoraggiato e condotto questa nostra comunità diocesana.

Buon proseguimento di lavoro...
Don Vincenzo

UN CONCILIO DA ATTUARE

A cinquant’anni dalla sua conclusione il Concilio Vaticano Il è sempre attuale, la sua lezione, le sue proposte e scelte di fondo straordinariamente moderne. E invece lenta e ancora lontana da un compimento armonico la sua reale ricezione. Il Concilio fu universale perché cattolico, ecumenico perché «di e per» il mondo intero, storico perché seconda fase, nuova, di un percorso iniziato nei decenni precedenti. Di esso i tratti che vorrei sottolineare sono: il suo carattere comunionale sotteso alla priorità data al popolo di Dio prima che a ogni organizzazione gerarchica; l’indole peregrinante ed escatologica nella sua incarnazione nel tempo e nella storia, che porta alla dismissione di ogni trionfalismo a favore di una compiuta e compartita sinodalità; la vocazione alla santità che è comune a tutto intero il popolo di Dio. È un’elencazione parziale di alcuni dei temi innovatori. E se oltre alla Lumen gentium ci si apre agli altri documenti del Concilio, questi e altri motivi si trovano intrecciati nel segno dell’epifania della chiesa che è l’azione liturgica (Sacrosanctum concilium) o della Parola di Dio (Dei Verbum) che è fondamento ecclesiale, o ancora della solidarietà simpatetica che lega chiesa e mondo (Gaudium et spes). Per non parlare dell’ecumenismo (Unitatis redintegratio), delle religioni non cristiane (Nostra aetate), della libertà religiosa (Dignitatis humanae), della missione (Ad gentes), dell’apostolato dei laici (Apostolicam actuositatem) e così via. Il Concilio non ha sciolto tutti i nodi. Basta pensare ai tre problemi che Paolo VI avocò a sé: la regolamentazione delle nascite, l’ammissione delle donne al ministero sacerdotale e il celibato dei preti. Sono problemi che hanno avuto una accelerazione impetuosa negli ultimi due decenni e hanno ricevuto risposte parziali e in varia misura restano dunque aperti. C’è un passaggio nel discorso di chiusura del Concilio di Paolo VI che riporto integralmente perché considero di grande profezia e attualità: «Qual è il valore religioso del nostro Concilio? [...] L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella sua terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere, ma non è avvenuto. L’antica storia del samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso [...] La religione cattolica e la vita umana riaffermano così la loro alleanza, la loro convergenza in una sola umana realtà: la religione cattolica è per l’umanità» (Paolo VI, Discorso di chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II). Riparto da qui per la mia riflessione. PER IL TERZO MILLENNIO Credo che la Chiesa, per sopravvivere, abbia veramente bisogno di scoprirsi costituita da una varietà di soggetti e di investire al meglio questa sua ricchezza. Animata dallo Spirito essa risulta composta di uomini e donne, a cui l’iniziazione cristiana conferisce il carisma-ministero fondamentale che tutti riconosce, nella triplice dimensione di re, sacerdoti e profeti. Su questa radice unificante ed esaltante vanno poi scoperti, alimentati e trafficati i doni propri a ciascuno e ciascuna. Sicché veramente appaia la dinamica costitutiva e gratuita dello Spirito e la Chiesa possa sino in fondo realizzare la sua indole di sacramento di salvezza.‘È chiaro, infatti, che il problema non è sopravvivere comunque, ma realizzare davvero il progetto di Dio che ci raduna come Chiesa. La Chiesa non esiste solo per quelli che le appartengono. Essa realizza la sua ragion d’essere solo nella misura in cui è portatrice del sacramento di salvezza. La Chiesa è per il mondo, i cristiani sono per gli altri. E l’una e gli altri sono tali solo se veramente interiorizzano le gioie e le speranze dell’umanità intera. Ma poiché il termine umanità potrebbe di nuovo ricondurci a un’astrazione, il discorso verte ancora sulla compiutezza di luogo, tempo e cultura. Occorre parlare tutte le lingue, dire la fede a ogni latitudine, inculturarla sempre e comunque, nell’Occidente secolarizzato come nelle altre situazioni e realtà di un cristianesimo che è minoranza e testimonianza a volte complessa che può portare fino al martirio per la professione di fede in Gesù risorto. È soprattutto la forza testimoniale che rende seducente e appetibile la scelta cristiana. La Chiesa può passare il testimone (di generazione in generazione) solo se interiorizza la condizione umana, se la fa sua sino in fondo, se elabora risposte concrete, che toccano i bisogni degli uomini e delle donne d’oggi. E, tra di essi, credo vadano annoverati innanzitutto quelli relativi alla pace, alla giustizia, alla dignità che è un diritto per ogni essere umano, uomo o donna. Una Chiesa che già al suo interno pratichi la giustizia e accetti ogni diversità come dono, che elabori regole proprie secondo le culture diverse, che ridica l’unica parola, l’unica fede, l’unico Cristo nella molteplicità diversa delle lingue, che rinunci a sentirsi potente, ma si faccia serva, sempre e comunque, che non disattenda il compito profetico della denuncia e della consolazione, che sia veramente compagna di ogni uomo e di ogni donna e ne faccia propria la vita. Una Chiesa corpo crismato che veramente faccia proprio il corpo negato o straziato d’ogni essere umano. Una Chiesa nel segno della «compassione».

Luca Rolandi

UNA PORTA SEMPRE APERTA

Un tempo di grazia Con l’indizione dell’ Anno della fede - che avrà inizio 1’11 ottobre 2012, nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, e terminerà il 24 novembre 2013, Solennità di Nostro‘Signore Gesù Cristo Re dell’Universo - Benedetto XVI ci ha consegnato un’immagine suggestiva: una porta da varcare, da attraversare. Una sfida a uscire dalle nostre piccole sicurezze, dai nostri dubbi, dalle nostre “crisi di fede”, per avventurarci nel mare aperto della vita, lì dove la fede non è teoria, nozione, pura conoscenza, ma esperienza da condividere, raccontare, spezzare con altri che sono in cammino con noi e come noi. Un tempo di grazia e di impegno che viene offerto a tutti noi per una sempre più piena conversione a Dio, per rafforzare la nostra fede in Lui e per annunciarlo con gioia all’uomo del nostro tempo. Questo anno, ha spiegato il Papa, si rivolge in primo luogo a tutta la Chiesa, perché dinanzi alla drammatica crisi di fede che tocca molti cristiani sia capace di mostrare ancora una volta e con rinnovato entusiasmo il vero volto di Cristo che chiama alla sua sequela. Un’occasione propizia, quindi, perché tutti i fedeli comprendano più profondamente che il fondamento della fede cristiana è «l’incontro con un avvenimento, con una Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» ( Deus caritas est, 1). Fondata sull’incontro con Gesù Cristo risorto, la fede potrà essere riscoperta nella sua integrità e in tutto il suo splendore. L’invito forte e chiaro è quello”di andare incontro agli uomini del”nostro”tempo per offrire loro occasioni di dialogo, di scambio, di”rinnovamento interiore e di avvicinamento a Dio. Luoghi”e occasioni di”incontro per ridire la fede in modo nuovo e insieme cercare ragioni per vivere. Una sorta di esodo dalla terra del non senso per riconquistare verità perdute o mai possedute,‘«per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza».

“UNA FEDE CHE CAMBIA LA VITA”

Lettera pastorale per l’anno 2012 – 2013 del Vescovo Mons. Martella

“Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?”. Queste parole di Gesù si trovano in Luca 18,8. Sono parole attuali, nel senso che oggi la fede sembra essersi eclissata, estinta o ridotta ad un feticcio. Già adesso potremmo porci la stessa domanda. C’è fede sulla terra? C’è fede fra i credenti in Cristo? Ovviamente ci sono persone che hanno fede e che la conservano praticando l’amore, il comandamento nuovo che include in sé tutti gli altri. Chi ama e rinuncia alle molteplici forme dell’egoismo viene da Dio; chi non ama non viene da Dio. Come scrive Padre Davide Abellon, teologo domenicano, “viene da ricordare quanto Benedetto XVI ha detto ai giornalisti mentre si recava a Fatima nel 2010: “Quando si parla di credenti si dà per presupposto che ci sia la fede, ma spesso questa non c’è”. Se per fede s’intende sapere che Dio c’è, ebbene questa fede ce l’hanno anche i demoni. Aver fede invece significa orientare la propria vita a Dio e obbedire a Dio”. Ci sono quindi cattolici e credenti che vivono una fede finta, che la simulano. A che pro? Per quale vantaggio? Per una manifestazione esteriore di pietà? Perché presenziare alle processioni dà un’immagine pubblica di noi che possiamo sfruttare per finalità di prestigio personale? Per apparire come amavano apparire scribi e farisei? Mons. Luigi Martella, in occasione della prossima apertura dell’anno dedicato alla fede, indetto da Bendetto XVI con la Lettera apostolica in forma di Motu Proprio dal titolo Porta Fidei, ha dato alle stampe la Lettera pastorale intitolata “Una fede che cambia la vita”. Il titolo del testo è apprezzabile e rende l’idea di quale sia l’intento del nostro Vescovo, cioè quello di far sì che vita e fede si intreccino, che il credente viva di fede e per la fede, che mai può prescindere dall’amore. Già nella Gaudium et Spes, uno dei documenti del Concilio Vaticano II, si legge: “Il distacco, che si constata in molti tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo”. Occorre quindi annullare il distacco tra fede e vita, tra vita pubblica e vita privata. Quanti scandali sono commessi da chi si dice e si mostra credente! Il furto sistematico dei soldi pubblici ne è un esempio eclatante. La controtestimonianza, quando proviene da chi si professa cattolico, è una minaccia alla Chiesa ed alla credibilità del messaggio evangelico. Ciò implica che si imposti la propria vita secondo principi di fede viva. Pregare di più e meglio, dialogare con Dio, accostarsi ai sacramenti della riconciliazione e della comunione, tenersi lontani da scelte di vita contrari alla morale cristiana, sono essenziali alla vita dello spirito. Come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica “soltanto in Dio l’uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa”.

Salvatore Bernocco

ALDO MORO “SERVO DI DIO”

Con Aldo Moro, il sindaco Giovanni Bernocco
e Renato Dell’Andro
 Mio padre Giovanni era amico di Aldo Moro. Io, di riflesso, ne ho apprezzato le qualità culturali, morali e politiche, vedendo il lui un uomo che univa fede e vita. Oggi, a distanza di anni, mi definisco ancora moroteo. Il suo impegno politico fu stroncato il 9 maggio 1978 dalle Brigate Rosse, gruppo di ispirazione marxista e leninista avverso alla fede cristiana. La prigionia di Moro durò 55 giorni, dal 16 marzo al giorno del ritrovamento del suo cadavere in via Caetani a Roma. In quel periodo Moro non cessò mai di rivolgersi a Dio. Lo testimoniano le sue lettere dal carcere, alcune molto commoventi, specie quelle indirizzate alla sua famiglia. Ora, il Presidente del Tribunale Diocesano di Roma ha dato il via libera all’inchiesta sulla sua beatificazione, dopo il nulla osta dato dal cardinale Agostino Vallini, Vicario del Papa, che ha indicato lo statista ‘Servo di Dio’. Maria Fida Moro, figlia dello statista democristiano, ha detto di ritenere che “in piena umiltà cristiana mio padre ne fosse assolutamente degno, per il modo nel quale ha trascorso i giorni della sua vita e quelli della sua ‘morte’, ovvero la prigionia nelle mani dei terroristi, essendo esempio di mitezza, compassione e misericordia. Mio padre è stato uno straordinario esempio di umanità e di fede”. “Come altri prima di lui, da Dossetti a Sturzo – ha ricordato - potrebbe salire all’onore degli altari perchè è stato un politico che ha lavorato sempre per il bene comune, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II. Aveva una profonda spiritualità, e questo era il suo tratto distintivo”. A favore della beatificazione dello statista democristiano anche Ferdinando Imposimato, legale di Maria Fida Moro, il quale ha dichiarato che “i brigatisti che lo hanno tenuto prigioniero, mi hanno raccontato che Aldo Moro ha mostrato una fede irriducibile: nel ‘carcere del popolo’ ha letto sempre la Bibbia, anche se dietro aveva la bandiera con la Stella a 5 punte. Moro ha dimostrato anche un senso di perdono per coloro che lo avevano abbandonato, comprese le alte gerarchie ecclesiastiche. Chiese e ottenne dalle B.R. il testo delle Sacre Scritture, e in quelle pagine si rifugiava tutti i giorni. Ha vissuto la sua prigionia con coraggio e spirito di santità estrema. Non è vero che aveva paura della morte: era solo preoccupato che con la sua fine la famiglia venisse abbandonata, cosa che poi si è puntualmente verificata”.

EVENTI E CELEBRAZIONI

L’inizio dell’Anno della fede coincide con il ricordo di due grandi eventi che hanno segnato il volto della Chiesa ai nostri giorni: il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano Il, voluto dal beato Giovanni XXIII (11 ottobre 1962), e il ventesimo anniversario della promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, offerto alla Chiesa dal beato Giovanni Paolo II (11 ottobre 1992). Il Concilio, secondo papa Giovanni XXIII, ha voluto «trasmettere pura e integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti», impegnandosi affinché «questa dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo». Al riguardo, resta di importanza decisiva l’inizio della Costituzione dogmatica Lumen gentium: «Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa» (n. 1). Dopo il Concilio, la Chiesa si è impegnata nella recezione e nell’applicazione del suo ricco insegnamento, in continuità con tutta la Tradizione, sotto la guida sicura del Magistero. Per favorire la corretta recezione del Concilio, i Sommi Pontefici hanno più volte convocato il Sinodo dei Vescovi, proponendo alla Chiesa degli orientamenti chiari attraverso le diverse Esortazioni apostoliche postsinodali.

Angela Savastano

Nel tempo e nello spazio di Dio

In sordina sono riprese le attività parrocchiali attraverso incontri con i vari operatori pastorali che hanno offerto e intendono offrire la loro disponibilità per quanto attiene alle varie attività della comunità: dalla Caritas, alla catechesi per fanciulli e adulti. I quadri sono ormai completi e con il 1 ottobre si darà inizio anche se il “Mandato” poi sarà dato la seconda domenica di ottobre. Si è intanto riunito il Consiglio Pastorale per una verifica delle attività estive e l’impostazione del nuovo anno pastorale, tenendo presente quanto il vescovo ha suggerito nel Progetto e nella lettera pastorale, esplicativa diremmo dello stesso progetto. In questo mese poi ci sono state varie riunioni per le Associate della Madonna del Buon Consiglio e assemblea per i fratelli di S. Rocco per alcuni problemi inerenti alla vita della stessa confraternita. Molto partecipato è stato poi il triduo in preparazione alla festa di S. Pio e il giorno della festa il nostro Nunzio apostolico Mons. Girasoli ha presieduto l’Eucarestia. Rappresentati della Comunità hanno partecipato al Convegno pastorale tenutosi nei giorni 19 e 20 settembre. Il giorno 29 poi il parroco ha celebrato l’Eucarestia in suffragio di don Michele Montaruli, già parroco della nostra parrocchia.

Luca

UNA BELLA OPPORTUNITÀ EVANGELICA

Miei Cari,
non ha molto tempo che il Papa ci ha ricordato l’invocazione: “Vieni a salvarci, Signore nostro Dio”. È il grido dell’uomo di ogni tempo che sente di non farcela da solo a superare difficoltà e pericoli. Escludere Dio dalla storia dell’umanità vuol dire dargli pietre invece di pane. Per salvarci soprattutto dal male profondo radicato nel mondo e nella storia è impellente ricorrere a Lui, perché quel male che è la separazione da Dio ci fa smarrire il senso della vita. Non possiamo accettare - dice il Papa - che il sale diventi insipido e la luce sia tenuta nascosta. Per questo ha voluto indire “l’Anno della Fede” che avrà inizio nel prossimo ottobre a cinquanta anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, per concludere nella festa di Cristo Re nel 2013. È un invito - spiega il Papa nella lettera di indizione - ad una autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo. Un’occasione proprio per un tempo di particolare riflessione e riscoperta della fede. L’Anno della fede si colloca proprio nel solco di quel più convinto impegno ecclesiale della Nuova Evangelizzazione, e all’inizio dell’anno pastorale, per riscoprire la gioia del credere e l’entusiasmo nel comunicare la fede. La fede, secondo il pensiero del Papa, quando è vissuta come esperienza di grazia e di gioia, allarga lo spazio della mente e del cuore. Diventa un aiuto nella appassionata ricerca della verità; particolarmente in questo momento di “pensiero debole”, dove si pensa che non sia possibile raggiungerla, sostiene la nostra debole volontà che vede il bene e lo approva ma è fragile davanti alla suggestione del male, ricostruisce il nostro mondo interiore con il perdono che cancella i nostri errori, ci insegna ad amare, che è la vocazione dell’uomo, ma urta contro il deserto dell’individualismo che ci circonda. La “porta della fede”, ci ricorda in ultimo il Papa, è sempre aperta ed è possibile oltrepassare quella soglia; quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma. I credenti - dice S. Agostino - si fortificano credendo. L’Anno della fede, insomma, come incontro vivo con Gesù vivo. Sia quest’anno 2012-13 un itinerario di ricerca come preambolo della fede per aiutare le persone sulla strada che conduce al mistero di Dio. Coraggio! Andiamo avanti e il nuovo pastorale, secondo il pensiero del Papa e del nostro vescovo don Gino ci farà raggiungere traguardi più luminosi. E non dimentichiamo la splendida affermazione di Giovanni XXIII: “Tantum aurora est” (è appena l’aurora).

Cordialmente
Don Vincenzo

LA CHIESA IN DECADENZA ? MAI STATA COSÌ FIORENTE

Per quanto riguarda la diffusione globale, i fedeli di tutte le lingue e culture, i Pontefici di altissimo livello, la fioritura di teologi di grande spessore culturale e la presenza di tanti pastori buoni.

Ci giungono in redazione alcune lettere che denunziano una decadenza della Chiesa, descritta anche in termini forti. Vengono proposte cause e rimedi per questo fenomeno. Vorremmo esporre alcune nostre convinzioni. Primo: siamo dell’avviso che la storia ci mostri come la Chiesa nel suo insieme non sia mai stata così fiorente come ora. Per la prima volta ha una diffusione veramente globale, con fedeli di tutte le lingue e culture; può esibire una serie di Papi di altissimo livello, una fioritura di teologi di grande valore e spessore culturale. Malgrado alcune inevitabili tensioni interne, la Chiesa si presenta oggi unita e compatta, come forse non lo fu mai nella sua storia. Secondo: la Chiesa non va vista solo nel suo aspetto istituzionale, identificandola con la gerarchia, cioè con i preti, i vescovi e il Papa. Essa è composta da noi, cioè da tutti coloro che credono in Gesù Cristo Figlio di Dio, attendono la sua venuta definitiva, lo amano e si comportano col prossimo come con Gesù stesso. Fanno parte o sono chiamati a far parte della Chiesa anche tutti gli altri uomini, i quali, come si esprime il Concilio Vaticano II, hanno «un solo fine ultimo, Dio, del quale la provvidenza, la testimonianza di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti» (Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane). Non dimentichiamo che, con qualche albero che cade, c’è la foresta che cresce, cioè il tanto bene che compie la Chiesa, la dedizione della quasi totalità dei sacerdoti, il fervore di molti laici. Terzo: una tale società esiste nella storia e quindi ha anche bisogno di una struttura visibile. Perciò esiste nella Chiesa anche l’aspetto istituzionale, la cui configurazione però è primigenita per quanto riguarda l’interpretazione della Sacra Scrittura, i dogmi e il Deposito della Tradizione. Per il resto è sottoposta alla legge dell’adattamento e del cambio, con risultati più o meno felici, come appare chiaramente dalla sua storia. Ma di tutte le istituzioni di questo mondo essa è tra quelle che sono durate più a lungo e che hanno mostrato nei secoli una capacità grande di rinnovamento e di cambio. Basta pensare ai giorni del Concilio Vaticano II e alla carica di gioia che esso fece esplodere. Quarto: molte delle lettere contengono osservazioni oggettive, ma che nascono dalla considerazione del nostro mondo occidentale. Esse non tengono conto della vivacità e della gioia che si trovano nelle chiese dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina.

Giovanni Stefanin

Perché è importante il prossimo 11 ottobre?

Risponderete che ricorre la festa del beato Giovanni XXIII. Dite bene, ma c’è qualcosa di più, che rende anche più solenne questa data: l’11 ottobre 2012 ha inizio l’Anno della Fede, indetto da Benedetto XVI nella concomitante ricorrenza del 50° anniversario del Concilio Vaticano II, che si aprì appunto l’11 ottobre 1962. Quella giornata memorabile si concluse a sera tarda con il famoso discorso della luna. Mai Giovanni XXIII fu così commovente, come quando apparve raggiante alla folla e al mondo che vedeva aprirsi un arcobaleno di pace sui cieli rabbuiati dalla guerra fredda. L’Anno della Fede si concluderà il 23 novembre 2013 nella solennità di Cristo Re. Il Papa richiama i credenti a un serio riesame di vita e a una conversione sincera. Nel documento intitolato la “Porta della Fede”, con cui è indetto quest’anno particolare, Benedetto XVI sollecita un rinnovato risveglio delle coscienze e un dinamico impegno di testimonianza nella società. Spicca il monito: “Non possiamo accettare che il sale diventi insipido e la luce sia tenuta nascosta”. Sia fiducioso l’apostolato in mezzo alla società secolarizzata. Il Papa ricorda saggiamente: “Anche l’uomo d’oggi può sentire di nuovo il bisogno come la samaritana al pozzo di Giacobbe per ascoltare Gesù".

CAMPO SCUOLA: UN’ESPERIENZA DI VITA

A conclusione dell’anno pastorale giovanile, anche questa estate si è tenuto il campo scuola: iniziativa volta alla formazione sia dal punto di vista religioso che da quello sociale. L’esperienza ha avuto luogo dall’8 al l 7 Agosto presso il Villaggio Boncore di Nardò, nei pressi della località marittima Torre Lapillo. Hanno partecipato 27 ragazzi del Gruppo Giovani della parrocchia, sotto la sorveglianza di alcuni membri del gruppo famiglia e la guida spirituale del nostro parroco don Vincenzo. Le mattinate son trascorse tra le limpide acque del mar Ionio, i pomeriggi all’insegna delle varie attività e le serate allietate da divertenti momenti di svago, organizzati dai responsabili del gruppo giovani, per la cui riuscita è stata essenziale la coesione raggiunta fra i componenti delle varie squadre, formate all’arrivo nella struttura che ci ha ospitato. Nelle nostre giornate non sono mai mancati i momenti di preghiera (la recita delle Lodi mattutine, il ringraziamento al Signore. prima dei pasti, ecc…) e quelli di formazione, al fine di non confondere il campo scuola con una semplice vacanza. Nel corso dei dieci giorni, sono sicuramente da ricordare le iniziative più coinvolgenti: la serata “Ciao Darwin”, durante la quale i membri di ogni squadra hanno assunto sembianze stravaganti; la tradizionale “Caccia al tesoro” per le vie del piccolo Villaggio Boncore; la giornata trascorsa, nonostante il cielo non del tutto sgombro da nuvole, presso l’acqua Park di Gallipoli; e molto altro ancora. Indimenticabile (e speriamo lo sia anche per i festeggiati), domenica 12 Agosto, quando Biagio e Nicoletta, membri del gruppo famiglia, hanno rinnovato la promessa di matrimonio dopo 25 anni insieme. Come in una grande famiglia che si prepara nel giorno delle nozze, si è avvertito, sin dal risveglio, l’entusiasmo per il grande evento nel quale, insieme ai parenti e agli amici di sempre, siamo stati tutti coinvolti. La cerimonia è stata celebrata da don Vincenzo nella chiesa “Sacro Cuore” di Boncore e animata dal nostro coro. I ringraziamenti, oltre che agli sposi per averci resi partecipi di un momento memorabile della loro vita, vanno rivolti agli altri adulti che ci hanno supportato e talvolta sopportato durante quest’avventura che ci ha fatti tornare a casa con qualcosa in più nel cuore. Desiderosi di continuare a crescere insieme, guidati dalla fede (in particolare nell’imminente Anno della Fede indetto dal Pontefice), invitiamo tutti i giovani mossi dai nostri stessi principi, a partecipare alle nostre iniziative.

G G.

IL CARDINALE MARTINI: L’UOMO DEL DIALOGO

La morte del cardinale Carlo Maria Martini ha suscitato un’ondata di cordoglio e anche alcune riflessioni sul magistero della Chiesa, che riconosce di essere peccatrice e di necessitare anch’essa della misericordia di Dio. Martini lo comprese prima di molti altri. Egli fu l’uomo del dialogo con le altre fedi religiose, che tutte presentano dei semina Verbi. Attraverso il dialogo ed il confronto con le altre fedi si ravviva la fede nell’uomo e nelle sue capacità di entrare in comunione con l’altro, spesso avvertito come distante, diverso, nemico. I nuovi tempi che si annunciano e che faticano ad inverarsi non potranno prescindere dall’amore per l’altro, dalla tolleranza, dall’accoglienza non giudicante. E che dire poi della cattedra dei non credenti? Dialogare con essi significa interrogarsi sulle domande di autenticità e di verità che provengono da chi non crede o ha perso la fede per colpa di chi avrebbe dovuto mostrarne la forza. I non credenti, in altri termini, interpellano i credenti ad andare più in profondità, a scandagliare le ragioni della loro fede. Ma non si tratta di strumentalizzare chi non crede a vantaggio di chi crede o pensa di stare sulla buona strada. I vantaggi ci sono per entrambe le parti, in quanto il non credente si interpella come essere umano sulle ragioni dello stare al mondo in modo più umano. Potremmo dire che un nuovo umanesimo richiede l’apporto di un nuovo cristianesimo, depurato dalle visioni terribili del Dio castigatore e nemico degli uomini. Ciò comporta anche una rivisitazione di talune posizioni cattoliche in materia di etica individuale, non perché la Chiesa si adegui e conformi a questo tempo, ma affinché si renda strumento di salvezza e di misericordia, salvando il salvabile, fermo restando il giudizio imperscrutabile di Dio su ogni sua creatura. Il cardinale Martini è stato definito “progressista”. Esistono quindi posizioni “conservatrici” all’interno della Chiesa? Ma cosa si difende, cosa si conserva, se ciò che si intende difendere è ormai morto? Il cardinale Martini, uomo di grande fede e spessore culturale, si è sempre interpellato sulle novità introdotte dal Vangelo, sulla sua essenza, sulla dimensione amorevole ed accogliente del Cristo, immagine trasparente del Padre. Il Cristo che beveva e mangiava con ladri e prostitute, tanto da passare per beone e mangione, oggi sarebbe considerato egli stesso peccatore e lontano da Dio. Questo è il paradosso di cui ci si deve liberare. Tanta gente si sente esclusa dalla Chiesa (divorziati, separati, omosessuali, etc.) ed opera una distinzione fra essa ed il Cristo. Si deve cambiare rotta e presto sulla scia dell’esempio di Martini.

Salvatore Bernocco

AMORE SENZA LIMITI

La tentazione più grave e spesso la meno avvertita, è il pensiero di amare quelli che possono e sanno di fatto rispondere e ricambiare. Sembra che l’amore sia un contratto: io ti do se tu mi dai, e ti do tanto quanto voglio ricevere da te. Così si inventa non più l’amore, ma un egoismo sempre più pesante e minaccioso, sempre più camuffato di saggezza e persino di giustizia, ma non si inventa né l’amore né la vita. Entra in gioco non più la fantasia che allarga e rende grande il respiro, ma la matematica che vuole contare, la piccola regola del tanto quanto: entra in gioco la priorità che non è mai dalla propria parte ma dall’altra. Il meccanismo della vita è un altro: è il meccanismo del dono, dello straripare della realtà che non può restare chiusa e ferma col pericolo di marcire e di disfarsi, è il meccanismo di una superiorità che non viene da nessun diritto, ma soltanto dalla percezione di “essere” qualcuno, e di “avere” qualcosa che non termina in sé stessi. Altrimenti, dove va la gioia di poter inventare la vita? Si diventa schiavi dell’altro, delle risposte, delle proposte, della iniziativa che non viene da noi: allora la vita è inventata non da noi ma da altre persone, e quando sono gli altri che inventano mai raggiungono la nostra vera personalità, mai colgono il nostro volto più genuino. La nostra vita è sempre e solo un dono di amore: se tutto diventa così, se anche i momenti più neutri o più noiosi, e persino i momenti negativi di fatica, di sofferenza, di sconforto (capitano, e spesso!) entrano nella festa, entrano a far parte della vitalità che c’è in noi, tutto cambia, tutto diventa luminoso. Che cosa pensiamo di inventare di più e di meglio di un amore senza confini, un amore che mai potrà essere smentito né tradito, un amore che cerca solo di potersi esprimere, senza chiedere nulla? Che cosa possiamo chiedere al mondo se non che ci lasci amare, servire, soddisfare le necessità più o meno vistose che abitano nel cuore dell’uomo? La nostra vita di uomini non ha nessun altro senso che questo: poter amare, potersi donare. Contro ogni mania di potere, di accaparramento, di sfruttamento, contro ogni teoria che sotto diverse forme tende a rendere l’uomo vittima dell’uomo, noi siamo di quelli che invece affermano la gioia e la grandezza di poter amare, servire, di spendere la vita per gli altri, di godere la vita come una festa con gli altri. Amare vuol dire “perdere la vita”, giocare il tutto per il tutto, donare senza contare. Dopo tutto, se è vero che siamo figli di Dio, creati a immagine e somiglianza di lui che è amore, siamo esseri creati per amare, e tutta la nostra capacità fondamentale sta nel saper amare. Qui è la nostra gioia più grande.

S. M.

Nel tempo e nello spazio di Dio

Nel segno della fraternità sono trascorsi i mesi estivi, comunque vissuti sempre nella preghiera e nella esperienza associativa da parte del Gruppo Giovani e delle famiglie che si sono dati appuntamento o a Villa Pasqualina o a Boncore per il campo scuola dall’8 al 17 agosto. Anche per le festività di S. Anna e di S. Rocco si sono vissuti momenti di fraternità e di festa e molti sono stati i fedeli che hanno partecipato. Ci siamo raccolti nella preghiera e nella riflessione il 28 agosto ricorrendo la data di inizio del cammino fatto insieme al nostro parroco don Vincenzo al quale abbiamo riconfermato sincera ed affettuosa collaborazione nel servizio pastorale della nostra parrocchia. Particolari momenti di festa mariana si sono vissuti per l’annuale festa della Madonna della Rigliosa: in quel quartiere il parroco ha celebrato l’Eucarestia e ha parlato ai fedeli, così fece per la festa di S. Maria della Difesa dove ci è stata anche la benedizione dei campi con la processione della Madonnina. Il Consiglio pastorale a fine agosto ha permesso di focalizzare alcune emergenze e strategie nuove per affrontare il nuovo lavoro pastorale. Anche per la Confraternita di S. Rocco ci si sta orientando per un nuovo cammino di fede da impostare col prossimo cammino pastorale.

Luca

PUÒ ANCHE ACCADERE

Se lo Stato è latitante... la parrocchia no !

Miei Cari,
mentre mi soffermavo a preparare l’omelia per la domenica 15° dell’anno, circa l’invio dei discepoli da parte di Gesù, mi è venuto in mente un episodio che ha turbato la serenità dei nostri ragazzi durante l’esperienza dell’Oratorio estivo, attraverso il quale essi fraternizzano, pregano, si divertono, fanno esperienza della vita bella vissuta con Gesù nella prospettiva del loro domani. Abbiamo imparato a contentarci delle poche strutture che abbiamo e degli spazi che mancano, anche se non mi è mai venuto meno il coraggio di pregare perché i buoni vicini della parrocchia imparino a gioire per quella vivacità innocente e buona di ragazzi che comunque vengono sottratti ai pericoli della strada nei mesi estivi. E’ intervenuto fortemente il papà di alcuni bambini: se lo Stato è latitante in ordine all’educazione dei nostri figli, la parrocchia deve farlo! Il parroco è abbastanza convinto che le ragioni per cui Dio vuole che la missione venga fatta nella povertà sono probabilmente queste: l’assenza dei mezzi, l’abbandono totale alla Provvidenza del Signore che rende liberi, che lascia gli altri liberi di accogliere e di rifiutare, perché l’annuncio sia più puro e meno condizionato. La povertà dei mezzi inoltre e quindi dei pochi spazi che la nostra parrocchia ha perché trovasi nel centro della città, fa risplendere la forza intrinseca della Parola di Dio: non siamo noi e men che meno le nostre strutture, gli agenti della conversione e della santificazione del mondo. Così dopo la turbativa della festa dei nostri ragazzi, comunque chiusasi rapidamente dopo un intervento affatto cristiano di un signore che lamentava il chiasso prodotto da essi, contrariamente alla spirituale letizia di una signora ultranovantenne che nota e apprezza il lavoro parrocchiale a favore dei gruppi dei giovani, dei fanciulli e delle famiglie, il parroco ha pensato di raccogliere la vivace comitiva in chiesa dopo il trauma subito dell’intervento spropositato. Dopo aver pregato mi è venuto di raccontare loro un episodio della vita di don Bosco quando scarseggiava di luoghi per far giocare i suoi ragazzi. Lo attinsi da un libro di Eugenio Pilla: “Don Bosco che ride”. L’autore riportava tra gli altri l’episodio di don Bosco che aveva fatto sostare i fanciulli in un prato confinante con la tenuta di una marchesa di Torino. Costei ammoniva il Santo per lo schiamazzo prodotto e diceva anzi che perfino le sue galline non facevano più uova per la incontrollata vivacità dello stuolo approdato lì con don Bosco. Il grande Leader, con amabile dolcezza, assicurava la marchesa che per l’anno a venire ciò non sarebbe accaduto. Sì. L’anno che venne registrò la morte della marchesa. Intelligenza e vivacità dei bambini! Una piccola, che ha frequentato la 2^ elementare interviene: “Don Vincenzo, allora anche quel signore morirà?” Intervengo subito. No. Gesù non è per la morte ma perché ci convertiamo e viviamo diventando buoni. Anche questo insegnamento credo abbia fatto breccia della vivace e simpaticissima famiglia dei ragazzi che hanno fatto l’esperienza dell’oratorio estivo di quest’anno.
Buon proseguimento delle vacanze.
don Vincenzo

QUELLA SINTESI LUMINOSA CHE CHIAMIAMO TRINITÀ

di NICHI VENDOLA

Le verità dogmatiche sono rocce impervie da scalare, abissi semantici da sondare, voli vorticosi nei cieli della fede, della filosofia, dell’etica. Forse per questo sono diventate ritmo, rito, mito. Le abbiamo declamate più che proclamate, come formule magiche o litanie cerebrali. Persino ebbri della loro mistica oscurità. Don Tonino, il meno “dogmatico” dei credenti, non si concede (non ci concede) al disco incantato del formalismo religioso, alla cantilena fideistica, all’abracadabra spiritualistico, quando prende di petto il più ostico, il più ermetico, il più inquietante dei dogmi: quello della Santissima Trinità. Non lo proclama, lo penetra, lo mette al microscopio, ne rivela il senso e l’antologia, lo mette in trasparenza ponendosi al confine tra cielo e terra, tra storia e salvezza. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: in questo nome ondulare e molteplice la Trinità non è una secessione dalla figura unitaria del Dio vivente, non è una frammentazione, non è una ferita nel corpo di Dio, ma è viceversa la spiegazione e il dispiegamento di Dio che, nel suo essere oltre la nostra ragionevolezza (spesso assai irragionevole), è un principio vorticoso, è la coincidenza di ciò che genera e di ciò che viene generato. È una filiazione che si avvita al rotolo dell’infinito. Padre, Figlio, Spirito Santo. Come a voler significare che solo il molteplice può illuminare la bellezza e la verità di ciò che è Uno, cioè Dio. Uno e trino, appunto. Una figura che non cumula ma moltiplica. Unitaria è la sintesi, che è forza cinetica, moto ondoso, “ulteriorità”; che è la scansione solenne e divina del processo di generazione: la genitorialità partorisce dall’utero celeste ciò che non finisce, il punto di fusione tra il futuro e l’eterno. Chi è padre e chi è figlio? Nel gioco delle nostre esistenze siamo esperti di improvvisi ribaltamenti, come quando si viene sbalzati nel tempo, e si invertono i ruoli intergenerazionali: quando cioè diventi il genitore del tuo genitore, alla sua estrema vecchiezza lo accogli con la tenerezza dovuta a tutte le infanzie del mondo, lo riponi nel tuo grembo, come se si arrotolasse all’incontrario il cordone ombelicale, fino a sentirti pronto a partorire chi ti ha partorito. Credo che mai, come in questi scambi tra padri e figli e tra madri e figlie, l’amore sia capace di mettere in equilibrio perfetto la bellezza e il dolore. Quando si perde il proprio statuto di figlio si ha sempre il timor panico e la vertigine dell’abbandono, del vuoto protettivo. Ciascuno ha paura di finire messo in croce, di sentire lo strazio dei chiodi e delle spine, di essere ostaggio della “banalità del male” che muta il delitto in burocrazia, di essere oltraggiato e spezzato senza che questo sacrificio possa rompere il silenzio del Dio Padre. La solitudine di Cristo morente è ciò che rende autentico il mistero dell’incarnazione, la “follia della Croce” è la finestra che cambia per sempre il nostro sguardo su Gerusalemme: città celeste ma anche mattatoio terrestre. Sempre si resta soli sulla croce, questo è il cuore della condizione umana. E persino colui che annuncia il Regno dei Cieli lo fa, in solitudine estrema, sudando e sanguinando e agonizzando e morendo. Non c’è lettera di raccomandazione dall’alto che lo salvi. La famiglia cristiana è incompatibile col familismo amorale che reclama salvacondotti e corsie preferenziali. E la famiglia umana non può essere mutilata della sua dimensione multiculturale, della pluralità di storie e sensibilità che ne innervano l’esistenza, di quella diversità che non è minaccia ma promessa, che non è pericolo ma occasione di ricchezza. Solo a don Tonino Bello poteva riuscire così preziosa e cristallina l’opera di traduzione del dogma trinitario in teologia degli oppressi, inchiodarci sul legno delle nostre pigrizie e far rotolare il masso dal sepolcro delle nostre ipocrisie. Quel Dio leggero e di facili costumi che vive come fiction televisiva e come circuito appaltatorio dei “sacri affari” non abita qui, nel vocabolario del Vescovo che scrutò il volto del risorto tra le rughe e i cenci di un vecchio (barbone, alcolista, tossico: nessuna etichetta rende merito alla regalità della condizione ultima...). I pensieri dell’esegeta vetero-testamentario si fanno ali d’angelo, poesia, preghiera. Ecco che la fede interroga e scuote la storia umana, ecco che il dogma scivola giù dalle nuvole e si impasta alla quotidianità, diviene lente per osservare ogni risvolto di ogni volto, diviene educazione alle differenze, diviene l’ostia che santifica ogni bocca affamata di verità. La scrittura di don Tonino sembra spinta dalla necessità impellente di distillare dalla contemplazione di Dio - di quel Dio vivente che danza la vita e che propone la misura di un amore senza misura - una goccia di conversione: non un facile galateo perbenista o una morale bigotta bensì una inesorabile spinta verso l’esodo. L’esodo da sé, dalle proprie pigrizie, dal formalismo di una spiritualità frigida e superficiale, dalle piccole patrie dei miti identitari, dalle sabbie mobili dell’etnocentrismo, dalle patetiche performances di un individualismo mercantile e spesso osceno. L’esodo dalla guerra come paradigma della relazione con l’altro/altra. Una fuga, un cammino, una morte, un tirocinio al deserto, un parto. L’esodo dalla cronaca del peccato alla storia della salvezza. Fino a intuire, non dico vedere, ma almeno a intuire quel passo di danza, quella bellezza che non è una velina, quella sintesi luminosa che chiamiamo Trinità. Fino a celebrare la comunione delle comunioni: cioè la pace. Don Tonino ci regala sempre un lume, con questa sua scrittura sorgiva e battesimale, per scorgere aurore non ancora nate. Ecco. A quel punto dell’orizzonte, a quel punto del mistero, a quel punto della trasparenza, troveremo le parole per sapere e per capire il senso di tutta l’oscurità che ci opprime e di tutta la luce che ancora ci manca.

PREGHIERA
Spirito Santo, dono del Cristo morente,
fa’ che la Chiesa dimostri di averti ereditato davvero.
Trattienila ai piedi di tutte le croci.
Quelle dei singoli e quelle dei popoli.
Ispirale parole e silenzi,
perché sappia dare significato al dolore degli uomini.
Così che ogni povero comprenda che non è vano il suo pianto,
e ripeta con il salmo: «Le mie lacrime, Signore, nell’otre tuo raccogli».
Rendi la Chiesa protagonista infaticabile di deposizione dal patibolo,
perché i corpi schiodati dei sofferenti trovino pace sulle sue ginocchia di madre.
In quei momenti poni sulle sue labbra canzoni di speranza.
E donale di non arrossire mai della Croce,
ma di guardare ad essa come all’antenna della sua nave,
le cui vele tu gonfi di brezza e spingi con fiducia lontano.
Insegnami, allora, a librarmi con Te, Signore.
Perché vivere non è trascinare la vita,
non è strapparla, non è rosicchiarla,
vivere è abbandonarsi come un gabbiano all’ebbrezza del vento.
Vivere è assaporare l’avventura della libertà.
Vivere è stendere l’ala, l’unica ala,
con la fiducia di chi sa di avere nel volo un partner grande come Te.

don Tonino Bello

“ALLA SCUOLA DEL VANGELO: EDUCARSI PER EDUCARE”

PROGETTO PASTORALE PER LA NOSTRA DIOCESI 2012-2016

Il progetto pastorale è ambizioso. Educarsi per educare è, infatti, il progetto di tutta una vita, un impegno che va ben oltre il quadriennio a venire. Potremmo anche dire che “vivere è educarsi ed educarsi è vivere”. Educarsi alla vita insieme, alla vita di comunità, di coppia, alle relazioni che nascono nell’ambito del lavoro, in quello politico. Educarsi all’amore, alla carità, all’agape come dimensione che connota la persona umana e ne segna il destino. Una vita senza amore, diseducata all’amore, orientata da egoismi più o meno sottili (che si celano anche nell’ambito ecclesiastico), è una vita anti-evangelica. Il deus di questo tipo di esistenza è il signore di ogni divisione e di ogni morte, il diavolo, colui che si oppone al Cristo della misericordia, della compassione, del perdono, della vita. Compito precipuo del cristiano, quindi, è dare vita, effondere vita, compartire speranza, compiere il prodigio di testimoniare la vita oltre la morte in un contesto sociale e culturale marcato a fuoco dal cinismo, dal nichilismo gaio e spensierato, i cui orizzonti sono i soliti: sesso, soldi, sopraffazione. Sopraffazione del forte sul debole, del maschio sulla donna e della femmina sull’uomo, dei ricchi sui poveri, con lo strapotere dei pochi sui molti. Tutta la vita cristiana ruota intorno all’amore, all’educazione alla carità che nulla chiede per sé e tutto dona. Il progetto pastorale varato dal nostro Vescovo richiede un impegno non occasionale da parte delle comunità parrocchiali, invitate ad immaginare percorsi di formazione all’amore. Ma si può apprendere ad amare? Ritengo di sì, che si possa compiere il salto da una visione egocentrata ad una post-egoica, in cui il nucleo fondamentale dell’essere umano è sottratto ai flutti dell’odio, del rancore, del giudizio e restituito alla pace del Cristo, che supera quella che il mondo può dare. È un lavoro interiore. Ed è un travaglio intimo staccarsi dall’utero dell’insignificanza per aderire ad un progetto rivoluzionario qual è quello dell’amore. Esso implica che si compia un percorso, che si recida il cordone ombelicale con un passato insipido, vacuo, privo di effervescenze vitali spirituali. La vita cristiana è azione contemplativa, nel senso che più lo spirito diviene capace di contemplazione più si compie il transito dall’inazione all’azione. La fede cristiana non è un progetto borghese per i borghesi. La fede nel Cristo è azione per la liberazione dell’umanità dalle pustole del male, che impedisce all’uomo di scorgere nel suo prossimo i tratti somatici della fratellanza universale. Il fulcro del male e del peccato sta infatti nel credersi altro dagli altri, concepire l’altro come lontano da sé. Smarrite le coordinate di questa nostra comune provenienza, si smarrisce il senso della vita e, nel ripiegarsi su di sé in un disperato tentativo di salvazione affidato alle cose del mondo, ci si intrappola nel budello dell’ego distorto e mortifero, si viene catapultati in un labirinto fatto di illusioni e di fallaci libertà. Il progetto educativo punta a sostenere l’attualità salvifica del messaggio del Cristo agli uomini ed alle donne del nostro tempo. Difatti, come si testimonia la resurrezione se noi per primi non conduciamo una vita da risorti? Come si testimonia l’amore di Dio per noi, se noi non siamo capaci di vivere l’amore fra di noi? I credenti portano questa responsabilità sulle loro spalle: rendere tangibile l’amore di Dio non a chiacchiere ma con le parole e le opere. Se non lo facessimo, saremmo testimoni di una fede morta e di un dio pagano. Salvatore Bernocco

FIGLI DI UN PADRE ASSENTE

L’assenza del padre in casa condiziona significativamente il comportamento degli adolescenti in un maggior uso di alcol e marijuana. Crisi di identità: i ragazzi che crescono in casa dove il padre è assente hanno più probabilità, rispetto ai ragazzi, il cui padre è presente, ad avere più problemi a stabilire un appropriato ruolo e identità sessuale di genere, sono più portati ad una sessualità precoce, che porta loro ad un disagio psichico, non essendo ancora in grado, di cogliere il significato profondo della loro sessualità, confusa e intesa soltanto come genitalità, non li aiuta a comunicare, si incupiscono, si chiudono in se stessi. La figura del padre, presenza affettuosa, e determinata, trasferisce nel figlio, sicurezza, autostima, capacità relazionali connotate di tanta sicurezza, gli permette di guardarsi attorno, scoprendone il bello, il fascino del vivere, rapportandosi agli altri, intessendo un tessuto di amicizie che gli permettono di assaporare la vita. La droga invece, dice: solitudine, noia, rabbia con se stessi e con il mondo che lo circonda. Un buon padre è un uomo che innanzitutto esprime amore per la donna nel cui corpo i suoi figli stanno venendo al mondo: affetto, attenzione, considerazione e rispetto in queste fasi sono la base relazionale per un futuro più felice dell’intera famiglia. Dopo il parto, l’evento della nascita stimola nell’organismo del padre un sensibile aumento dell’ormone detto ossitocitina, nel momento in cui un uomo si trova un bambino tra le braccia inizia una vera e propria relazione fisica e psichica a catena. L’ossitocitina, infatti va a stimolare l’amigdala, un’area del cervello che favorisce la produzione e il rinforzo dei legami di attaccamento, affettivi e relazionali tra esseri umani. Il padre è stimolato a manifestare nei confronti del bambino particolari sentimenti, tipici del papà, che non sono quelli della mamma: stimola il figlio all’esplorazione dell’ambiente, dirige la sua attenzione verso gli oggetti, le altre persone, lo rassicura in particolari attività ludiche, come il lancio dalle braccia del padre verso l’alto, lo incoraggia a raggiungere la posizione seduta. Questo gli dà un senso di sicurezza, presupposto fondamentale per la crescita dell’autostima e poi del successo nella vita. Determina la qualità dello stile di socializzazione che il figlio, anche nelle età successive, manifesterà con i propri compagni, con la mamma. Va inoltre notato che laddove l’interazione padre e figlio è inconsistente, superficiale, o assente, gli esiti sono decisamente negativi: insuccesso scolastico, disistima, insicurezza, aggressività verso gli altri, incupimento, scarsa comunicabilità, atteggiamenti antisociali, rifiuto delle figure educanti. Per tornare al discorso sulla droga, che diventa per tanti ragazzi la risposta, certamente sbagliata, ma comunque una risposta, ai loro disagi provocati dalla mancanza della figura significativa del padre, occorre oggi tenere presente quello che sostengono le ultime ricerche in materia di droga. Viene dimostrato che non esiste “la droga” leggera e che la canabis, per esempio, mette in grave pericolo la salute mentale, per non parlare poi delle droghe sintetiche. È decisivo per la prevenzione che i genitori là dove ci sono, o almeno la mamma con l’aiuto di qualcuno, ne parlino con i figli dei rischi connessi all’uso di alcol e droga.
• Il genitore dovrà essere attento per accorgersi dell’eventuale uso di sostanze.
• Discutere con loro, con decisione e verità, spiegandone tutti i rischi che quelle sostanze fanno correre.
• A volte subentra la paura, nell’affrontare certi argomenti così impegnativi.
• È urgente, farsi forza, per intervenire in tempo, per evitare poi brutte sorprese.
• Fargli capire che la droga ti imprigiona, che se uno usa una sostanza, in brevissimo tempo la sua unica relazione (il suo amore) è con quella sostanza, e che non c’è più spazio per dare amore a se stessi, ai propri sogni e desideri.

Nel tempo e nello spazio di Dio

Il mese di giugno si caratterizzò per la Messa di Prima Comunione preparata con tanto amore dai catechisti e dal parroco che sollecitò ancora una volta i genitori a trasmettere in modo adeguato e più veritiero la fede ai loro bambini. Si pensò poi alla festosa chiusura dell’anno catechistico e a quello associativo con la partecipazione ad una serata di festa per i giovani e per il Gruppo famiglia presso Villa Pasqualina. Intanto ci si predispone ad organizzare le giornate dell’Oratorio estivo per i nostri ragazzi più bisognosi che gratuitamente hanno fornito delle stupende giornate di energia sia pure dietro i mugugni di qualcuno che non riesce a recepire i tanti messaggi di bene che possono provenire dai fanciulli che il più delle volte diventano maestri per gli egoisti. Partecipammo poi alla solennità dell’Ottavario del Corpus Domini e alla processione eucaristica. Ebbero dunque conclusione gli incontri formativi per le associazioni parrocchiali e quella del mese al S. Cuore. Come ogni mese ci fu messa e catechesi per le Associate della Madonna del Buon Consiglio e l’Assemblea straordinaria dei Confratelli di S. Rocco. Molto ben riuscita poi la festa rionale di S. Maria della Rigliosa. Luca

L’ OTTAVARIO DEL CORPUS DOMINI A RUVO

Annotazioni con altrettanta chiarezza
Sollecitato da più parti e persone interessate all’argomento, trattato per altro nella mia pubblicazione “Ruvo Sacra”(Fasano, 1994, p. 211) torno a riparlarne dal momento che ci si affida molto spesso alle ali della fantasia più che alle fonti storiche sia pure scarne e che non autorizzano a propalare leggende che nulla hanno a che fare con la fede e il progresso di essa. Soprattutto dopo l’evento di eccezionale portata qual è stato il II Concilio Vaticano: se sia da far prevalere l’aspetto pastorale della manifestazione di fede, come tenacemente vollero i vescovi Mons. Antonio Bello e Mons. Donato Negro negli anni successivi all’episcopato di Mons. Aurelio Marena.



 Il culto eucaristico in Ruvo

Con certezza andò sviluppandosi nel ‘500 quando sorse la Confraternita del SS. Sacramento presente in Cattedrale. Non si conosce l’anno di fondazione. Essa è comunque già attiva nel 1543 quando fu aggregata all’arciconfraternita romana del Santissimo in Santa Maria sopra Minerva a Roma, al tempo di Paolo III. Nel 1576 l’Arciconfraternita romana estendeva a quella di Ruvo le indulgenze concesse da Papa Gregorio XIII. Originariamente fu costituita da “massari” e pertanto godeva di un certo prestigio economico. A partire dal ‘500 essa è citata, con riferimento al culto e alle attività caritative, in tutte le relationes ad limina, in cui compare sino alla seconda metà del XVIII secolo che segna il suo declino e scomparsa.
Afferma il maestro di liturgia Mario Righetti che “nei luoghi dove specialmente esisteva una confraternita del SS. Sacramento si permetteva anche una breve processione entro o attorno alla chiesa. Tali usanze però erano quasi sconosciute in Spagna e in Italia almeno fino al secolo XVI. Nel concilio provinciale di Colonia (1452) fu emanato un decreto dove l’esposizione del SS. Sacramento era consentita nella festa e durante l’ottava del Corpus Domini”. Praticamente anche nella città di Ruvo ci si attenne a tali disposizioni.
Da nessun documento, da ricerche fatte presso l’archivio Capitolare di Ruvo, si evince la data della Solennità dell’Ottavario del Corpus Domini. Fino agli anni del Vaticano II tale festa avveniva il Giovedì dopo la domenica della Trinità ed era l’arcidiacono del Capitolo a reggere il prezioso ostensorio con quasi certezza realizzato a Napoli sotto l’episcopato di Mons. Bartolomeo Gambadoro nel ‘700, mentre il vescovo lo reggeva il giorno dell’Ottava. Stupendo nella sua finezza il paliotto ricamato in oro nella stessa epoca a devozione della nobile famiglia Caputi di Ruvo.La risonanza all’Ottava era ugualmente data - come si sa - alle solennità del Natale, della Pasqua, di Pentecoste, del Corpus Domini e a Ruvo anche di S. Antonio e altre feste principali.
Poiché la parola “ottava” significa “otto” vuol dire che la festa continua otto giorni. Tale pratica originariamente giudaica, fu adottata anche dalla Chiesa, essendo un mezzo per rendere più solenni le feste e per incidere più profondamente nella vita dei cristiani. La massima solennità potè originarsi dall’instare di Ruvo nel Regno di Napoli: famosa era in Napoli la festa dell’Ottava del Corpus Domini detta anche “festa dei quattro altari”. La processione eucaristica attraversava le principali vie della città e sostava, appunto, ai quattro altari, grandi templi effimeri e sfarzosamente addobbati con figure e allegorie che esaltavano il mistero eucaristico, costruiti in altrettante piazze dove l’arcivescovo impartiva la solenne benedizione. Il più sfarzoso era l’altare costruito nei pressi del Teatro San Carlo. Al passaggio della processione il re, con famiglie e seguito, si affacciava sul balcone del Palazzo Reale, addobbato con luci e drappi, e si inginocchiava per adorare il SS. Sacramento.
Ancora ai giorni nostri la “festa dei quattro altari” o “dell’Ottavario” si svolge a Torre del Greco, proprio il giorno dell’Ottava del Corpus Domini.
Particolare solennità assumevano nella Roma papale le processioni del Corpus Domini e dell’Ottavario. Nei giorni dell’Ottavario, la processione era riproposta, con grande partecipazione popolare in diverse chiese della città, dove si snodava un corteo di religiosi e militari con insegne e stendardi.
A Marineo, in Sicilia, per l’Ottavario, detto “l’ottavario di lu Signuri” si allestiscono straordinari tappeti di fiori. A Casape, in provincia di Roma, la festa del Corpus domini, con relativa infiorata, viene ripetuta nell’ottavario. Così a Genzano di Roma. Per quanto attiene Ruvo, fino ai tempi del Vaticano II, ogni terza domenica di mese, dopo la messa conventuale, in cattedrale si faceva la processione eucaristica e al termine, alla presenza dei due Primiceri si elevavano preghiere per la Repubblica e il suo Capo (Domine salvam fac rempublicam et praesidem eius). Le norme poi circa la processione del Corpus (Rituale Romanun, Cerimoniale dei Vescovi, II, 33, 15, S.R.C. 1232 e 4062 ad 2) avvertono che la processione deve sempre farsi dopo la messa solenne il giorno dell’Ottava (Roberto Lesage, dizionario di liturgia romana).


Come nasce la leggenda dell’ Ottavario

Nel 1936 moriva ultranonagenario Mons. Luigi Elicio, Protonotario Apostolico e Penitenziere del Capitolo Cattedrale. Eccelleva per la sua spiritualità e devozione, ma anche amava l’arte. Fu l’ispiratore e guida dell’architetto Ettore Bernik nel riportare la cattedrale di Ruvo allo splendore originario eliminando stucchevoli superfetazioni che la deturpavano nell’epoca barocca. Egli curò con lo stesso Bernik una breve monografia sulla cattedrale. Si distingueva il citato Mons. Elicio per la sua pietà e devozione, componendo preghiere e rinfocolando devozione all’Eucarestia, a Gesù al Calvario venerato nel Carmine o a Santi come S. Lucia, venerata preso la chiesa dei Padri Cappuccini. A tali prerogative si aggiungeva uno spiccato senso di predicazione molto terra terra per la popolazione ruvese, in quell’epoca contraddistinta da una grande povertà ma soprattutto da gente illetterata e povera, fatta di contadini e gente molto devota. Fu lui, secondo la testimonianza del sacerdote arciprete don Francesco Caldarola senior, parroco di S. Giacomo al Corso dal 1937 al 1967 a mettere su la leggenda della istituzione dell’Ottavario del Corpus Domini. Consultando documenti, carte e platee del Capitolo e Confraternite - sino ad oggi - nulla è emerso in ordine a tale istituzione. Emergono comunque inaspriti rapporti tra il vescovo e il conte di Ruvo. Solo col vescovo Mons. Orazio de Mirto, secondo le conclusioni Capitolari del 6- 12 1578, vol. II, F. 66, si desume che i canonici di Ruvo si adoperarono per la pacificazione tra l’autorità ecclesiastica e quella civile. Dovette di qui prendere le mosse Mons. Elicio per impastire la leggenda? Sembra tuttavia molto inverosimile se si pensa che i tre vescovi De Mirto - napoletani - che ressero la diocesi di Ruvo nel ‘500 non erano facilmente di stanza in Ruvo. Ma soprattutto in ordine alla presunta profanazione avvenuta del corteo eucaristico, poteva un membro della famiglia Carafa macchiarsi con simile gesto, provenendo dai Carafa, papi, cardinali e vescovi? Sembra alquanto assurdo il contenuto della leggenda di Mons. Elicio. Annota comunque la relazione ad elimina del vescovo di Ruvo Giuseppe Caro del 13 aprile 1668 che i rapporti tra le parti dovettero migliorare in seguito.

La leggenda di mons. Elicio mette radici

Chi ereditò lo spirito di Mons. Elicio, fu il giovane sacerdote don Francesco Caldarola senior, ordinato presbitero nel 1934. Divenuto parroco di S. Giacomo al Corso nel 1937, ereditando il terz’Ordine Francescano proveniente dalla chiesa dei Cappuccini che avevano abbandonato il convento e l’annesso tempio, egli si prodigò ad abbellire la chiesa che era stata ricostruita nel 1869 su una precedente commenda dell’Ordine Gerosolimitano. Don Caldarola si prodigò a fare abbellire la chiesa con dipinti a tempera fatti eseguire dal maestro torinese di affermazione veneziana Mario Prajer di stanza a Bari (la cappella dell’ospedale militare, ma anche altri luoghi baresi furono da lui affrescati). L’unica navata della chiesa si allarga con una cappella per la reposizione del SS. Sacramento. La fantasia e la devozione eucaristica di don Caldarola lo orientarono a far realizzare due medaglioni di S. Chiara e S. Pasquale Bailon, legati a fatti eucaristici e nell’alto due lunette: la prima raffigurante la scena della Istituzione da parte del Conte di Ruvo e duca di Andria, della Festa dell’Ottavario del Corpus Domini (chi fosse tale Conte non si dà il nome ma solo che fosse un “Carafa” proprio perché avvolto nella leggenda). Di fronte alla prima lunetta - poiché si trattava di dare una risonanza eucaristica - veniva raffigurata la scena di un miracolo (?) eucaristico avvenuto durante la vita di S. Antonio di Padova, quindi molto tempo prima della fantomatica istituzione dell’Ottavario. Si raccontava infatti che, dopo diversi giorni in cui fu tenuta digiuna, una giumenta giunta alla fine stremata nelle forze si sarebbe inginocchiata dinanzi all’ostensorio eucaristico, retto da S. Antonio. E di qui, apriti cielo! La confusione e lo stravolgimento di due episodi che nulla hanno in comune. Castronerie e stupidaggini che affatto non contribuiscono ad una veritiera e autentica pietà eucaristica. Si è confuso - e lo si ripete ancora oggi - tra la cavalcatura del presunto Conte Carafa (chi era?) in ginocchio davanti al SS. Sacramento.


Trasformazioni ulteriori della festa dell’Ottavario del Corpus Domini

Fin sotto l’episcopato di Mons. Marena (1978) la processione avveniva il giovedì dopo la conventuale delle 11,00. Essa si snodava per via Cattedrale, via V. Veneto, piazza Menotti Garibaldi o dell’Orologio (dove veniva impartita la benedizione) si proseguiva di ritorno in cattedrale da via De Gasperi, via N. Boccuzzi, via S. Caterina, via Annunziata e rientro in chiesa. La domenica successiva la processione del SS.mo, retto dall’Arciprete questa volta, aveva il giro inverso: da via Annunziata a via Cattedrale. La medesima processione si ripeteva ogni Vespro tra la festa del Corpus e l’Ottava in cattedrale. Alla processione del giovedì e della domenica erano tenuti soltanto i Canonici Capitolari. Il giorno dell’Ottavario era il vescovo a reggere l’ostensorio e impartire le benedizioni presso gli altari allestiti in corrispondenza delle quattro porte della città: Porta de Sarra (verso S. Angelo), Porta de Noja (S. Domenico), del Buccettolo (presso S. Giacomo) e Piazza Castello (chiesa del Redentore); la prima veniva impartita nella storica piazza dell’Orologio. L’itinerario era il seguente: via Cattedrale, via Modesti, piazza Castello, via De Gasperi, piazza dell’Orologio, via V. Veneto, piazza Bovio, corso Carafa, corso Gramsci, piazza Castello, piazza Cavallotti, corso G. Jatta, via Purgatorio e rientro in cattedrale. La benedizione veniva impartita presso i cinque altari “solo” nel giorno dell’Ottavario dal vescovo nella processione solenne. Fu Mons. Bello che tenacemente volle la processione nelle ore pomeridiane. Un particolare per la storia: proprio il primo anno del cambiamento cadde una pioggia a dirotto che costrinse l’assemblea liturgica a rimanere in cattedrale e girare intorno alle navate per la processione. Per la prima volta si ascoltò una lunga ma bellissima preghiera lì per lì composta e pronunciata dal compianto Servo di Dio Don Tonino. E ancor più tenacemente il suo successore Mons. Donato Negro volle l’unica benedizione in Piazza Castello perché - affermò - sarebbe stata sufficiente una sola benedizione per l’intera città. Cambiano i tempi, cambiano le tradizioni? Le coordinate per una vera, centrale e autentica impostazione eucaristica per la comunità ruvese ci sono. Si tratta di verificarle perché la tradizione (la cornice, l’involucro) non abbiano il sopravvento e depauperare i ruvesi nella pietà eucaristica che - come afferma il Concilio Vaticano II - è fonte e culmine della vita dei cristiani. Ma una processione così solenne che deve farsi largo tra le bancarelle che sono sul corso principale della città e non sui marciapiedi ma sulla strada, la dice lunga se l’Eucarestia può veramente diventare il punto centrale di riferimento della vita cristiana...

Mons. Vincenzo Pellegrini


29 Giugno: Festa del Papa

Benedetto XVI
In sette anni ha compiuto 23 viaggi internazionali, 27 in Italia, ha scritto tre encicliche, ha indetto un anno della fede, istituito un Pontificio Consiglio per la nuova evangelizzazione e si appresta a celebrare i 50 anni dal Concilio Vaticano II. Insomma, un Papa forse non in perfetta forma fisica ma pronto ancora a impegnarsi come un “contadino nella vigna del Signore”.
VIVAS - FLOREAS - GAUDEAS


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21 Giugno: Memoria di S. Luigi Gonzaga
al nostro Vescovo don Gino il filiale augurio e un pensiero orante nel giorno nel suo onomastico dalla comunità del SS. Redentore.

IL SIGNORE MANDA I SUOI ANGELI SUL NOSTRO CAMMINO

Miei Cari,
nel grigiore e nelle tristezze della vita, tra gli incidenti di percorso e le illusioni o abbagli di trovarti con persone sincere e che si rivelano poi confuse e tutt’altro che solari ma politicanti, la bontà del Signore ti fa incontrare ponendoli sulla tua strada degli uomini veri; figure di valore che tra la “ripetizione della dottrina e la compassione, hanno preferito quest’ultima”. Mi riferisco a P. Ernesto Balducci, incontrato per diversi giorni a Firenze alcuni anni prima della sua scomparsa. Lui, un gigante per la cultura, la fede e il servizio (era lui che al mattino si imponeva di servirci la colazione). E con lui P. David Turoldo presentatomi da Don Tonino nell’atrio dell’episcopio di Molfetta e che mi aveva precedentemente scioccato e edificato con la lettura del suo libro: “Il dramma è Dio”. La sua figura imponente e le sue parole di eccezionale penetrazione “Non sapete che un pò di lievito fà fermentare tutta la pasta? (1 Cor., 6) lasciavano trasparire la trascendenza e il vero uomo di Dio. Che dire poi di Don Tonino? Con la sua lapidaria affermazione “Chi non vive per servire, non serve per vivere” e tutto il suo ministero di vescovo ritmato dello spirito del servizio e dalla compassione. Ma non basta. E la povertà, la fiamma nel cuore e l’anelito di una Chiesa che sia veramente tale che fuoriesce da ogni poro di P. Ortenzio da Spinetoli più volte incontrato in una modesta casa condivisa a Recanati con una famiglia di poveri custodi del cimitero recanatense? Lo avevo ammirato, approfondito e studiato in quel suo volume, libro di testo durante gli studi di teologia negli anni ’60 “I Vangeli dell’infanzia”. E per concludere in grazia: la solare e amabile, fraterna persona del frate dei Servi di Maria, Alberto Maggi che tanto bene fa parlando con semplicità del Vangelo di Gesù e che attraversa dal nord al sud l’Italia. Segnato purtroppo da qualche mese dalla sofferenza per una disseccazione dell’aorta mentre continua ad affermare che tale esperienza gli conferma che “quando si vive per gli altri, al momento del bisogno si riceve cento volte di più” o che “è la Chiesa che deve convertirsi al Vangelo, non il contrario”. Ma ciò che mi ha fatto riflettere è un affermazione di fede che non ho mai ascoltato da altri (che anzi!: chiamato al capezzale di una morente che sollecitavo al perdono del suo coniuge, costei si rifiutava ribadendo un deciso «no»). Ebbene, quando uno si trova in grave pericolo di vita, si è soliti invocare o rivolgere preghiere a questo o quell’altro santo, facciamo celebrare messe. A me, che assicuravo a questo umile frate il mio conforto nella preghiera, mi son sentito dire che non ce ne sarebbe stato bisogno perché “la scelta del Signore sarà la migliore”. Una fede disarmante. Avremmo dato anche noi questa risposta? Grazie, P. Alberto per questa lezione fondamentale: fede e compassione. Miei Cari, il Signore non ci abbandona, anche nei tristi momenti che stanno attraversando i fratelli dell’Emilia- Romagna e sempre confortandoci con angeli che pone sul nostro cammino come P. Alberto, infermo che ti scuote con le sue affermazioni di fede: “La scelta Sua sarà la migliore”. Avvenga così anche per ciascuno di noi.
Cordialmente,
Don Vincenzo

LA MAMMA: ANCHE IL NONNO LA INVOCA

Dicono che, sul punto di morire, dalla nostra mente scompaiono tutti: i figli, il marito, il padre, gli amici, i soldi... In quell’ultimo istante, raccogliendo le forze rimaste, il cervello mette a fuoco soltanto lei: la mamma. Non so se tutto questo sia vero. So però di aver assistito alla morte di un vecchio, reso duro dalla vita, carico di rughe e di fatica che, morendo sussurrò: “mamma”. D’altronde, quando avvertiamo un pericolo improvviso, l’istinto ci fa gridare: “mamma mia!”. Hai mai visto la pubblicità? Madri che sono in attesa con il loro commovente pancione, madri che puliscono sederini, che spalmano cioccolata e formaggini, che scelgono prodotti genuini, che comperano carte igieniche morbide e tonni teneri che si spezzano con un grissino, che lavano con gioia le magliette zozzissime del marito, che stendono al sole lenzuola più bianche di quelle della vicina, che strofinano pavimenti fino a potersi specchiare, che seguono con occhi lucidi i figli che si sposano, che controllano se le nuore sanno cucinare la carne in scatola. Anche i cantanti, quando vogliono andare a colpo sicuro, compongono canzoni sulla mamma. Mi sono sempre chiesto se Edmondo De Amicis, lo scrittore del libro Cuore, conoscesse Maria di Nazareth. Di certo il volto della sua mamma lo conosceva. E, allora, conosceva anche il volto di Maria perché nel volto di ogni donna c’è un frammento di bellezza. “Non sempre il tempo la beltà cancella o la sfioran le lacrime e gli affanni: mia madre ha sessant’anni, e più la guardo e più mi sembra bella. Non ha un accenno, un guardo, un riso, un atto che non mi tocchi dolcemente il core; ah, se fossi pittore, farei tutta la vita il suo ritratto! Vorrei ritrarla quando china il viso perch’io le baci la sua treccia bianca, o quando, inferma e stanca, nasconde il suo dolor sotto un sorriso. Pur, se fosse il mio priego in ciel accolto, non chiederei di Raffael da Urbino il pennello divino per coronar di gloria il suo bel volto; vorrei poter cangiar vita con vita, darle tutto il vigor degli anni miei, veder me vecchio, e lei dal sacrificio mio ringiovanita”. (E. De Amicis, Se fossi un pittore) Poi guardi Maria, la mamma per eccellenza, e non sai fermare sulle labbra una domanda “da bambino”: “Maria, da uno a dieci: ma quanto bella sei?”

N.N,

HI AND BYE (toccata e fuga)

Premetterei un asserto non dogmatico: il nostro carattere non è il nostro peccato. Molte volte facciamo confusione fra carattere e peccato. Una reazione caratteriale automatica, frutto di stratificazioni e di abitudini spesso apprese passivamente, non designa un peccato in senso religioso, ma una mancanza di consapevolezza e di coscienza di sé. Finanche un atto di violenza compiuto senza consapevolezza non è peccato, per cui potrei affermare che vi è peccato se vi è consapevolezza, che vi è più senso del peccato quanto più siamo capaci di percepirci, di sentirci, di ascoltarci, di porre in essere comportamenti non automatici. Il Cristo sulla croce, prima di spirare (non di morire), dice (il verbo è al presente perché lo dice anche adesso, in questo preciso istante):‘“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Colui che non sa quello che fa non può essere condannato, ma compatito e perdonato. Quanto sia corta la corda della libertà dell’uomo è cosa ben nota. Vorremmo ma non possiamo. Potremmo ma non ce la sentiamo. C’è qualcosa che si frappone fra il pensato, il voluto e l’agito. Perché non vogliamo veramente, non pensiamo profonda-mente. A livelli profondi, lì dove si situa la faglia di scissione, le ferite sanguinano, l’inconscio detta i suoi ritmi, deborda e ha ragione di noi. Non facciamo ciò che vorremmo. Scrive san Paolo ai Romani: “Ma io sono un essere debole, schiavo del peccato. Difatti non riesco nemmeno a capire quel che faccio: non faccio quel che voglio, ma quel che odio. Però se faccio quel che non voglio, riconosco che la Legge è buona. Allora non sono più io che agisco, è invece il peccato che abita in me. So infatti che in me, in quanto uomo peccatore, non abita il bene. In me c’è il desiderio del bene, ma non c’è la capacità di compierlo. Infatti io non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio. Ora, se faccio quel che non voglio, non sono più io ad agire, ma il peccato che è in me. Io scopro allora questa contraddizione: ogni volta che voglio fare il bene, trovo in me soltanto la capacità di fare il male. Nel mio intimo io sono d’accordo con la legge di Dio, ma vedo in me un’altra Legge: quella che contrasta fortemente la Legge che la mia mente approva, e che mi rende schiavo della legge del peccato che abita in me. Eccomi dunque, con la mente, pronto a servire la legge di Dio, mentre, di fatto, servo la legge del peccato. Me infelice! La mia condizione di uomo peccatore mi trascina verso la morte (…)”. Paolo è tuttavia consapevole di questa scissione che lo trascinerebbe verso il baratro della morte se non intervenisse la potenza del Signore, il Simbolo, Colui che unisce ciò che è diviso. Di quale morte parla Paolo? Di quella biologica? Certo che no. Qui si parla della seconda morte, di quella dell’anima, della definitiva presa di distanza dal Logos, per volontà soggettiva, quindi per atto libero e consapevole. Affinché un peccato sia mortale si richiede che concorrano alcune condizioni: «È peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso», si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Piena consapevolezza e deliberato consenso implicano che possano esserci ignoranza ed inconsapevolezza. Di qui la necessità di acquisire sensibilità quanto al peccato grave attraverso la conoscenza di sé e dei propri meccanismi alienati. È inevitabile che se non si possiede un principio unificante, ogni azione è un aborto di bene, è costruzione peritura, è de-finalizzata, consegue risultati incerti, inconsistenti, volatili. Questa incertezza si riverbera sempre sul mondo relazionale, così che ogni relazione non si espande ma divampa in un falò di paglia. Tutte le relazioni sono a rischio di strumentalizzazione, di rottura e di consumazione. È l’epoca dell’hi and bye. Ti incontro per consumarti, per vampirizzarti, per portarti a letto, dopo di che “whatever we had, we had” (ciò che è stato è stato). Le morti per ecstasy, alcol e droghe di tantissimi giovani rivengono dal non aver accolto l’etica del Volto, dall’appassimento della speranza, che sempre concerne il futuro, per aderire ad uno squallido presente senza orizzonti. Generazioni senza futuro. Generazioni per le quali il tempo non ha senso, non ha niente a che fare con l’anima. Generazioni di precari in ogni senso. La relazione desertificante intercorre fra individui, non fra persone, laddove l’individuo si differenzia dalla persona perché l’accento è posto sull’ego e non sull’io sano e sul noi comunitario. L’individuo è isolato nello spazio dei suoi interessi materiali. Non vi è alterità se non per il tempo strettamente necessario a raggiungere i propri obiettivi. Alterità immiserita e violentata. La persona invece parte da sé per andare oltre se stesso, per superarsi nell’atto di amore verso di sé e verso l’altro. I suoi spazi sono abitati dallo spirito che vivifica la materia. Senza questa potenza vivificante, l’uomo è destinato a restare individuo e a non conoscere la bellezza di sé e del mondo. Gli altri non assurgeranno mai al rango di prossimo ma di altro da sé, di avversario, di nemico, di marionetta. L’individualismo è guerra continua, dentro di sé, nelle famiglie, nei condomini, nei luoghi di lavoro, nelle parrocchie, nei partiti. Il principio unificante ha sempre natura divina o escatologica. Nessun sistema filosofico, nessuno sforzo di sola ragione, nessuna concezione politica ha elaborato un principio unificante universalmente valido. Dio è il Logos. Dio è la Parola che salva, non la parola che turlupina, imbroglia, mistifica. Egli è il principio unificante, per cui il peccato che non sarà perdonato, quello contro lo Spirito, ritengo sia l’atto o l’azione derivante dalla piena consapevolezza che Dio è il Logos, ma senza che a questa consapevolezza ci si conformi con umiltà e sapienza. So ma non faccio. Sono consapevole che Dio è mio Padre, ma Egli va ucciso, altrimenti la mia libertà sarà sempre condizionata, la mia parola sarà sempre influenzata, io dovrò fare i conti con me stesso fino in fondo, fino al punto di scendere nel mio personale inferno per battermi con l’Anticristo, il cui campo di battaglia è il cuore dell’uomo, inteso come coscienza, mente, conscio. Elogio della libertà assoluta che si converte tragicamente in follia e, liberamente, in lontananza da Dio.

Salvatore Bernocco

L’ASD “SAN ROCCO” SI PREPARA PER I PLAY-OFF NAZIONALI !

L’ora dei play-off nazionali di C1 sta per scoccare. A rappresentare la Puglia con onore ci sarà l’Asd San Rocco Ruvo che da sabato 19 maggio sarà impegnata nel triangolare con Molise e Basilicata. Si parte dalla sfida interna del Palasport di Via C. Colombo con il Real Maratea. Sfida insidiosa per gli uomini di mister Tedone, decisi, però, a giocarsi fino in fondo le chances a disposizione per completare al meglio una stagione fin qui esaltante. La vittoria nella finale play-off con il Futsal Barletta di due settimane fa potrebbe aver già spalancato di fatto le porte della serie B alla squadra ruvese tra le più accreditate a beneficiare di un eventuale ripescaggio. Ma Mazzone e compagni vogliono sul campo dimostrare di meritare la serie B, conquistandola a suon di gol. “Fino a questo momento – dice mister Rocco Tedone – siamo andati al di là di ogni rosea previsione. Qualche errore nostro ci ha penalizzato, togliendoci la possibilità di giocarci fino all’ultima giornata di campionato la possibilità di vincere il nostro raggruppamento di C1. Ma ai play-off ci siamo riscattati, mettendo sul piatto le nostre qualità migliori: cuore, grinta e determinazione. Sono molto soddisfatto di come i più giovani siano riusciti a mettersi in mostra sin qui, sia con la prima squadra che con l’U21”. Asd San Rocco Ruvo che per tutto l’anno ha dovuto viaggiare su due binari paralleli, C1 e U21, con quest’ultima esperienza conclusasi contro lo Scafati ai quarti di finale, con la sconfitta maturata nel corso del secondo tempo supplementare: “Occorre fare un elogio allo staff tecnico guidato da mister De Venuto che con parsimonia ha saputo condurre una cavalcata entusiasmante. Anche con l’U21 siamo stati in corso sino agli ultimi minuti supplementari contro lo Scafati, la cui squadra maggiore milita in A2, e tutto ciò grazie al nostro inconfondibile entusiasmo”. Mister Tedone si sofferma sulla sfida interna con il Real Maratea e sul futuro: “Ci auguriamo di poter continuare a onorare questa maglia fino in fondo, sapendo che nulla ci è precluso se continuiamo a dannarci l’anima e a correre su tutti i palloni. Sul futuro ci penseremo appena sarà conclusa quest’avventura. Vogliamo programmare il nostro domani con parsimonia e attenzione massima, dando solidità al nostro progetto. Tutti noi sappiamo che dobbiamo sempre onorare i sacrifici che tutti noi, dal primo all’ultimo componente della società, compiamo giorno dopo giorno”.

Nel tempo e nello spazio di Dio

Con grande entusiasmo demmo inizio al mese mariano che registrò la presenza dei tanti devoti di S. Rita che festeggiammo dopo aver celebrato il solenne novenario con la benedizione e la distribuzione delle rose. Intanto si intensificò la preparazione dei fanciulli che si accostarono al sacramento della riconciliazione e quella dei ragazzi di seconda media che ricevettero la Cresima. Fu infatti il vescovo Don Gino ad amministrarla il sabato 19 maggio. Il gruppo famiglia animò ogni sera il rosario anche per le persone che non potettero ogni sera partecipare all’Eucarestia. Il giorno nove il parroco celebrò durante la novena al Santuario della Madonna delle Grazie. Anche i bambini di prima Confessione fecero il ritiro spirituale presso il Santuario di Calentano. Gli incontri periodici di formazione dei vari gruppi si tennero regolarmente e il 31 maggio – come ogni anno- si portò processionalmente la Madonna da Via Pio XII per la veglia mariana e l’affidamento della Comunità alla Vergine. A conclusione c’è stata poi la riunione del Consiglio Pastorale Parrocchiale.

Luca

Auguri al Santo Padre!


16 aprile: Al Santo Padre che festeggia i suoi 85 anni l’affetto, il conforto della nostra preghiera, la fedeltà al suo magistero.

La Comunità Parrocchiale

Addio a don Paolo Cappellutti


“Il Signore ha un progetto per ognuno di noi.
Sta a noi portarlo a compimento”.


Grazie don Paolo per questo tuo ultimo messaggio.
Arrivederci in Paradiso.

La morte di don Paolo Cappelluti; parroco di S. Angelo: 30 marzo 2012

AL SEPOLCRO NON INCONTRERAI IL RISORTO

Miei Cari,
la gioia della Pasqua pervade l’animo di ciascuno di noi, nonostante le difficoltà del momento che stiamo vivendo. Il mai dimenticato ed amato Don Tonino di cui ricorderemo il giorno 20 aprile, l’anniversario del suo pio transito, ci sussurra ancora di guardare le gemme che stanno spuntando più che le foglie morte che in autunno sono ai piedi degli alberi. È Pasqua! Se Maria Maddalena si fosse recata al sepolcro un giorno prima -scrive con arguzia un teologo contemporaneo- avremmo celebrato la Pasqua un giorno prima. Non si è recata al sepolcro subito dopo la sepoltura perché è ancora condizionata dall’osservanza della legge, il riposo del sabato.
L’osservanza di essa ha impedito di sperimentare subito la potenza della vita che c’era in Gesù, una vita capace di superare la morte. L’osservanza del sabato ritarda l’esperienza della nuova creazione inaugurata da Gesù. L’espressione “il primo giorno della settimana” richiama infatti il primo giorno della creazione, quella che non conosce la morte, né la fine. Il recarsi al sepolcro quando era ancora buio: le tenebre sono immagine dell’incomprensione della Comunità che ancora non ha compreso Gesù che si è definito “luce del mondo”, il suo messaggio, la sua verità. Corre dai discepoli Pietro e l’altro discepolo (che non ci è lecito battezzare col nome di Giovanni, ma colui che ha fatto l’esperienza dell’amore di Gesù, al contrario di Pietro che ha rifiutato di farsi lavare i piedi e quindi non ha voluto accettare l’amore che Gesù ha espresso nel servizio) si recano al sepolcro. L’unico posto dove non dovevano andare. Nel Vangelo di Luca viene espresso chiaramente dagli uomini che frenano le donne che vanno al sepolcro, “perché cercate tra i morti colui che è vivo?” Pietro e l’altro discepolo vanno in cerca del Signore nell’unico posto dove Lui non c’è, nel luogo cioè della morte.
Se si piange la persona come morta, cioè se ci si rivolge al sepolcro, non la si può sperimentare viva e vivificante nella propria esistenza.
I discepoli non avevano compreso la Scrittura, che cioè Egli doveva risorgere dai morti; la preoccupazione dell’evangelista Giovanni è che si possa credere alla risurrezione di Gesù solo vedendo i segni della sua vittoria sulla morte.
Ma, miei Cari, la risurrezione di Gesù non è un privilegio concesso a qualche personaggio duemila anni fa, ma una possibilità per tutti i credenti.
L’accoglienza del Vangelo, la radicalizzazione di questo messaggio nella vita di ciascuno di noi, la nostra trasformazione ci permettono di avere una vita di una qualità tale che ci fa poi sperimentare il Risorto nella nostra esistenza. Non si crede che Gesù è risorto perché c’è un sepolcro vuoto, ma soltanto se lo si incontra vivo e vivificante nella nostra vita, pur sempre ricordando che la nostra risurrezione non si fonda solo su quella di Gesù, ma anche sulla sua Incarnazione. Perché, con l’eternità entrata nel tempo e l’infinito nello spazio (di Maria), anche il nostro tempo ha aggiunto sapore di eterno e il nostro limite si è rivestito di illimitato.
È il mio auspicio, il mio augurio.

Don Vincenzo

MAMMA E PAPA’ FATE IL POSSIBILE, NON SEPARATEVI

Quante circostanze abbiamo vissuto e ognuno di noi, certamente, in modo tutto particolare e diverso, a volte con manifestazioni evidenti, altre volte soffocando tutto dentro. I grandi sanno veramente che cosa passa nel cuore di un figlio in questi momenti? Se ne accorgono davvero oppure si fermano semplicemente a facili e retoriche commiserazioni? In quei momenti quanto avremmo voluto che fossero i nostri genitori, per primi a spiegarci cosa stava capitando, a darcene una ragione. Ma forse neanche per loro era ed è facile, così presi dalle loro tensioni, dalle loro sofferenze, dallo scaricarsi l’un sull’altro le colpe e le responsabilità. E noi in mezzo. Lo sappiamo quanto abbiamo patito, soprattutto quando ad un certo punto papà e mamma sono giunti alla rottura e alla decisione della separazione: un dramma per loro certo, che hanno visto crollare i progetti fatti; ma un dramma anche per noi, che abbiamo sentito l’impotenza di fronte a questa scelta.
Quante volte abbiamo pregato da piccoli o da grandi, che non accadesse l’irreparabile, che la nostra famiglia rimanesse unita, che i problemi fossero
superati… e quanto siamo rimasti delusi e smarriti per non essere stati motivo sufficiente per evitare la separazione! c’eravamo noi, perché dividersi? e allora, la domanda tremenda: chi siamo noi per voi? chi siamo noi ora? Perché il Signore ha
permesso questo? Fa male ritornare su questi interrogativi, ma non si possono dimenticare: c’è in gioco la nostra identità, il nostro passato e il nostro presente e il nostro futuro. Le risposte vanno trovate. Non possiamo mai dimenticare di essere stati generati da un uomo e da una donna e di essere amati da entrambi: noi siamo il frutto dell’unione di due persone e questo ci rimarrà sempre dentro, nel profondo di noi; anche quando siamo tentati di schierarci da una parte o dall’altra
anche quando ci viene da odiare uno di loro, anche quando siamo abbandonati da uno di loro. Viene sempre il momento in cui emerge in noi il bisogno o il desiderio di quella parte di padre o di madre che siamo noi e che non potrà mai essere cancellata,
soppressa: vorrebbe dire eliminare una parte di noi stessi. È naturale, in certi momenti, propendere verso il genitore più debole o sofferente, sostenerlo col nostro affetto, volere la sua ripresa. Ma è giusto riconoscere che in queste situazioni entrambi i genitori stanno male. Anche se in modo diverso, entrambi hanno bisogno del nostro affetto, come noi di loro. Spesso si sente dire che un coniuge separato non smette comunque di essere genitore; ma, a maggior ragione un figlio non smette mai di essere figlio e di esserlo nei confronti di entrambi genitori: anche a loro mancherebbe una parte di se stessi senza i propri figli.
È proprio l’immagine dei nostri genitori che con la separazione può andare in crisi. Quando i nostri genitori hanno vissuto certe situazioni o assunto certi atteggiamenti, a volte non ci sembravano neanche più loro, non li riconoscevamo più: la loro reazione magari ci è sembrata spropositata e ci ha sorpreso... forse proprio nei momenti più critici della loro vita, noi siamo costretti ad accorgerci che sono
si i nostri genitori, ma sono anche uomini e donne con una loro personalità e autonomia, con un loro passato e dei loro progetti, con i loro limiti, le loro debolezze, i loro sbagli.
Più degli altri figli, che crescendo gradualmente acquisiscono una giusta vicinanza e una giusta distanza dai genitori, noi abbiamo dovuto conquistare questa maturazione a seguito di strappi dolorosi e tramite cammini faticosi: ma anche questo fa necessariamente parte della nostra vita di figli, che comunque continua anche dopo la divisione dei genitori. Quanto ci brucia davanti ai compagni riconoscere di essere figli di separati o divorziati. Ma anche questa fatica fa parte del cammino di rielaborazione del proprio futuro. Da soli è difficile accettare tutto questo. A volte vorremmo anche solo sfogarci con qualcuno, ma non è facile trovare le persone giuste. Tra i parenti, c’è chi ti sa capire e consigliare bene, ma altri sono troppo chiusi o schierati, e rischiano di riversare su di noi le loro rabbie e i loro dispiaceri. A volte vorremmo confrontarci, vedere le cose dal nostro punto di vista, o da un punto di vista più neutro, oggettivo e sereno, magari uscendo dalla cerchia dei nostri familiari.
Cerchiamo persone che con molto amore e sapienza ci aiutino in questo percorso di rielaborazione del tutto.
Un altro problema sorge con il nuovo compagno, o la nuova compagna di papà e mamma. Ci appare come un’ulteriore diminuzione di quell’affetto, come un altro allontanamento o abbandono nei nostri confronti. Ci fa male soprattutto, sentire parlare male del genitore assente. È faticoso crescere con queste premesse. Se vissuta bene, questa fatica, ci può dare una forte capacità di discernimento e di orientamento, degli anticorpi più resistenti di fronte ai problemi inevitabili, che la vita ci pone di fronte.
Sorgono comunque degli interrogativi, determinati dalla paura che si insinua nella nostra vita, quando dovremmo organizzare le nostre storie d’amore. Mi posso fidare dell’amore della persona di cui mi innamoro? E se mi abbandona anche lei? Posso pensare a un mio matrimonio felice o non come quello dei miei genitori?
L’esperienza vissuta nelle nostre famiglie ha messo in discussione proprio i punti più intimi e delicati del nostro spirito, ma insieme ci costringe a far appello alle energie nascoste che sono in noi che nonostante tutto ci aiutano a credere in qualcosa, ad affidarci a qualcuno, a donarci interamente a lui. Non è difficile intravedere qui lo spazio e il valore della fede e dell’amore. Dio non ci abbandona mai.
Lui ci permette di far scaturire dal nostro spirito delle energie meravigliose che ci permettono di avere fiducia ancora nella vita e ad avere il coraggio di spenderla
nell’amore.