Era un giorno di pioggia, scorreva lento l’autunno dell’ultima malattia.
Fu allora che mia madre mi insegnò, dalla sua cattedra di dolore, come pregare.
Ero seduto sul letto – volevo essere all’altezza dei suoi occhi‘– sul letto grande dove lei mi aveva dato alla luce. Dalla porta aperta vedevo in cucina la tavola di quercia, l’altare della casa. Le tenevo la mano, così ricca di pane e di carezze, mentre lei mi diceva: ´Figlio mio, prega adesso che stai bene, perché quando si sta male non si ha neppure voglia di pregareª. Così mi diceva, ma il suo corpo era preghiera.
Non ho più dimenticato quella fede dolente e amorosa che si preoccupava non di sé, ma si prendeva ancora cura di me; che – vangelo vivo – non pensava alla sua vita, ma alla mia. Mi diceva: non aspettare d’aver bisogno, prega nei giorni del bene, prega sui ponti degli affetti, prega sui sentieri della gioia, prega sui passi della luce.
Nella malattia è facile accusare, aggredire, ribellarsi o esserne spezzati: perché, Signore?
Perché a me? Difficile pregare nella malattia, perché il dolore è egocentrico al punto da eliminare ogni altro interesse. Ma difficile pregare anche per un altro motivo: che cosa chiedere al Signore?
Padre Turoldo ripeteva: ´Io non ho mai chiesto a Dio di guarirmi. Perché non può, non deve!
Perché deve guarire me e non il bimbo leucemico, o la giovane madre con il cancro? Invece ho sempre chiesto forza nella malattia, coraggio nella valle oscuraª.
Tuttavia, sotto la pressione della sofferenza, una preghiera resiste, ed è il gemito: dichiarazione che l’essere umano è un essere ferito, verità ultima dell’uomo: ´Padre, ho bisognoª. Il gemito: preghiera della ferita, quando non nego e non mi sottraggo al mio punto debole, quando non aggiro il dolore.
Quando percepisco Dio dal pulsare profondo della mia piaga.
Preghiera del corpo. Spesso, nel tempo della malattia, si compie in noi una perversa trasformazione: da vittime di un male che ci aggredisce a colpevoli di quello stesso male: è un castigo per quella colpa che mi pesa ancora. Ci comportiamo verso noi stessi come gli amici che visitano Giobbe (4,7-8) e lo colpevolizzano; ci trasformiamo in nostri persecutori anziché in consolatori. Ma il dolore non chiede spiegazioni, vuole condivisione. Non domanda motivazioni, cerca partecipazione. Malato e amici attendono insieme, con un cuore che si dice nell’incrocio degli occhi e che affiora, quando affiora, sulle labbra: ´Signore aiutami”. Malato e amici, appoggiando una fragilità all’altra, sostengono la vita.
In ogni paziente è il mondo intero a patire, il malato è l’icona di un’umanità visitata da un cielo e da una terra in pianto, da guardare e da cui essere guardati. La preghiera si fa sguardo.
Guardare che cosa? Guardare Gesù, ´la Parola uscita dal silenzio per essere senso al nostro silenzio; Gesù è il discorso di Dio sul doloreª (G.Bruni). Dinanzi al malato Gesù si commuove, si turba, scoppia in pianto, è preso alle viscere, prova dolore per il dolore dell’uomo afferrato da una mano che strazia e inquieta. Nella sua commozione e nel suo pianto vi sono il pianto e la commozione di Dio: Gesù che piange riassume il pianto dei mondi, nel suo particolare patire si annoda l’universale patire.
Allora la preghiera si risolve in pianto: ´Le mie lacrime nell’otre tuo raccogliª (Sal 56,9). Le raccoglie a una a una, le conserva perché nessuna vada perduta. Ha immensi archivi di lacrime, il Signore, e non di peccati da rinfacciarmi nel giorno del giudizio.
Uno sterminato tesoro di lacrime è misteriosamente custodito in Dio, e l’eloquenza delle lacrime, la loro preghiera durerà per l’eternità. Il mondo è un immenso pianto, perciò è un’immensa preghiera. E un immenso parto: Gesù davanti al malato sta come colui che indica un futuro sottratto al dolore e alla morte.