IL 40° DI SACERDOZIO DEL PARROCO DON VINCENZO


“Ovunque e sempre, sii … Sacerdote”

Miei Cari,
concludeva così la sua omelia il vescovo Mons. Marena quel 7 dicembre di 40 anni or sono prima di impormi le mani e iscrivermi nel numero dei sacerdoti di Cristo.
Quel numero 40 mi ha portato a riflettere sul valore simbolico che assume nella Sacra Scrittura: rappresenta la sostituzione di un periodo con un altro agli anni che costituiscono la durata di una generazione. Così il diluvio si prolungò durante 40 giorni e 40 notti, cioè il tempo del passaggio ad una umanità nuova. Gli israeliti soggiornarono 40 anni nel deserto, il tempo necessario perché una generazione infedele fosse sostituita da una nuova. Mosé restò 40 giorni sul monte Sinai ed Elia fuggì per 40 giorni perché giungesse il tempo al termine del quale le loro vite sarebbero cambiate. Il profeta Giona passò 40 giorni ad annunciare la distruzione di Ninive per dare agli abitanti il tempo di cambiare vita. Gesù digiunò per 40 giorni per segnare il suo passaggio della vita privata a quella pubblica. Insomma si tratta di un “passaggio” ad una realtà nuova non perché il “sacerdozio” sia da rimuovere ma perché sia vissuto con più donazione e più slancio a servizio di Dio e dei fratelli, anche se il numero 40 rimane nel suo antico significato di tribolazione e attesa: Gesù ha digiunato 40 giorni nel deserto e il medesimo intervallo intercorre tra la sua risurrezione e la sua ascensione.
Ma, al di là di questi riferimenti biblici, non posso non tornare a pormi la domanda: perché mi son fatto prete?
Il vescovo americano Fulton J. Sheen mi ricorda che la domanda non è ben combinata perché da essa apparirebbe che sia stato io a scegliere il Signore, mentre è stato Lui a scegliere me.
È stato Lui a volere che io facessi qualcosa, a voler fare di me uno strumento, come una penna con cui avrebbe scritto sulle anime il poema del suo amore. Se io dicessi: “perché mi son fatto prete” dimenticherei le parole del Signore:“Non siete voi che avete scelto Me, ma sono Io che ho scelto voi”. Il sacerdozio è una vocazione, un invito, una chiamata. Io certamente non ho meritato questa chiamata. Ma il Signore non sceglie sempre i migliori; altrimenti sembrerebbe che le benedizioni vengano dalla potenza umana più che dalla forza di Dio. In questo senso, l’amore di Dio è cieco. Si direbbe che Egli non guarda la nostra indegnità.
Ecco perché non cesserò mai di benedire l’Immacolata nella cui festa celebrai 40 anni or sono la mia Prima Messa. Lei e il Servo di Dio don Tonino, anch’Egli ordinato prete nella festa dell’Immacolata, mi ricorderanno sempre le parole pronunciate dal mio vescovo: “Ovunque e sempre, sii … Sacerdote”.

Don Vincenzo
vostro parroco

L’augurio dell’Arcivescovo Mons. Loris Francesco Capovilla

Celebrazione: Adorare Pregare Operare Amare

Carico di memorie e di eventi questo 2009 invita parrocchie, diocesi, chiesa universale a perseverare sui solchi dei padri e a rimediare il motto paolino che contrassegnò il pontificato di Pio X, che percorse tutti i gradi dello status ecclesiastico, da cappellano a Tombolo a pastore universale:”Ricondurre a Cristo unico capo tutte le cose” (Ef 1,10).
Per i parrocchiani del SS.mo Redentore è anno cinquantesimo di annuncio del Concilio Vaticano II e quarantesimo di sacerdozio del parroco mons. Vincenzo Pellegrini.
L’esultanza, i dovuti complimenti, gli auguri spontanei e intensi si coniugano con rinnovata riflessione sulla carta d’identità ricevuta al fonte battesimale: “Voi siete la luce del mondo. Non può restare nascosta una città che sta sopra un monte; né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Parimenti risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre che sta nei cieli” (Mt 5,14-16).
Gesù l’ha detto per ogni suo discepolo e per ogni comunità che da lui prende nome.
Il convenire festoso sta bene, così pure il profluvio di sentimenti di gratitudine e solidarietà.
Ma non basta a saldare il conto: “La parrocchia non è soltanto un tempio, un sacerdote, un territorio o una determinata porzione del gregge del Signore espressa in cifre più o meno eloquenti; essa è la cellula viva di un corpo e cioè del Corpo mistico di Gesù Cristo: è un essere vivo con il suo proprio anelito, con i suoi organi e le sue attività, con il suo sviluppo naturale e persino con i suoi problemi, le sue necessità“ (Pio XII).
Pastore e fedeli, sono consapevoli che solo tramite l’apporto di comunità che imitano e aggiornano la testimonianza di chiese domestiche e locali segnalate negli Atti degli Apostoli (2,42-47) si accende la speranza che l’umanità si purifichi, si perfezioni e progredisca.
I quarant’anni di messa di don Vincenzo destano dunque il proposito di fare della parrocchia la accolta di battezzati in continuo ascolto della Parola, assidui al sacramento della riconciliazione e al banchetto eucaristico, devoti della Madonna secondo le indicazioni dell’esortazione Marialis cultus di Paolo VI, indagatori dei segni dei tempi, instancabili cultori delle opere della misericordia.
Noi viviamo l’era del Concilio Vaticano II. Custodiamo gli insegnamenti di Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II. Camminiamo tenendo alta la fiaccola accesa di Benedetto XVI nell’ora misteriosa della sua elezione al papato: “Mi sta dinanzi la testimonianza di Giovanni Paolo II. Egli lascia una chiesa più coraggiosa, più libera, più giovane.
Una chiesa che, secondo il suo insegnamento ed esempio, guarda con serenità al passato e non ha paura del futuro. Col grande giubileo essa si è introdotta nel nuovo millennio recando nelle mani il vangelo, applicato al mondo attuale attraverso l’autorevole rilettura del Concilio. Giustamente Giovanni Paolo II ha indicato il Concilio quale bussola con cui orientarsi nel vasto oceano del terzo millennio (cfr Novo millennio ineunte, 57-58). Anche nel suo testamento spirituale egli annotava: Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito (17 marzo 2000).
Anch’io, pertanto, nell’accingermi al servizio che‘è proprio del Successore di Pietro, voglio affermare con forza la decisa volontà di proseguire nell’impegno di attuazione del Concilio Vaticano II, sulla scia dei miei predecessori e in continuità con la bimillenaria tradizione della Chiesa.
I parrocchiani del SS.mo Redentore, anche tramite felicitazioni e ringraziamenti offerti al loro pastore si sentono partecipi della sua stessa dignità sacerdotale e profetica che fa tutt’uno col dono del battesimo e si sentono coinvolti dalla voce del Concilio che propone la rievangelizzazione di villaggi e diocesi, il progresso nella verità e nella giustizia, più intensa preghiera, servizio disinteressato e coraggioso.
La manifestazione dell’8 dicembre vuole il calore e il commento dei cantici a noi familiari: Magnificat e Te Deum con la preghiera del santo dottore Tommaso d’Aquino:
Concedimi, Signore mio Dio, intelligenza che ti conosca, zelo che ti cerchi, sapienza che ti trovi, vita che ti piaccia, perseveranza che ti attenda con fiducia e fiducia che alla fine arrivi a possederti.
Questo piccolo fiore colto sul declivio del Colle San Giovanni nel villaggio natale di Papa Roncalli, offro con letizia e speranza al fratello don Vincenzo e al suo cenacolo pastorale.


+ Loris Francesco Capovilla
arciv.di Mesembria

L'Immacolata


Il Signore promette in Maria la salvezza per l’umanità e la chiesa, celebrando “l’Immacolata concezione” della vergine madre, proclama la potenza redentrice di Dio che è senza limiti, disponibile per ogni uomo e ogni donna. Nella Genesi è narrato l’inizio del peccato che porta l’uomo lontano da Dio: Adamo ed Eva, nostri progenitori, si sono fatti ingannare perché non si sono fidati dell’amore. Ma viene promessa una donna la cui stirpe con il suo sì all’amore vincerà il male. Tale promessa è compiuta in Maria che, dopo aver chiesto ragione di una richiesta così sconvolgente, senza pretesti o scuse, dona la sua disponibilità a diventare madre del Cristo e madre dell’umanità. Quale splendido esempio per noi che tante volte, come Adamo ed Eva, ci copriamo con pretesti, scuse, paure, problemi non solo davanti agli altri, ma anche davanti a Dio e cerchiamo scappatoie per giustificare il nostro comportamento di poco amore.
In Maria, donna senza peccato, dono e meraviglia dell’amore, possiamo contemplare ciò che anche noi un giorno saremo. San Paolo scrive che in Cristo siamo stati benedetti e in lui siamo stati scelti prima della creazione per essere santi e immacolati davanti a lui ed eredi in Cristo. La grazia di Dio non è un qualcosa di passivo che l’umanità subisce, ma una promessa e un annuncio come quello fatto a Maria dall’angelo, richiede umile accettazione disponibilità amorosa. La Parola di oggi ci invita quasi a riconoscere nel più intimo di noi stessi questo dono di grazia; una grazia più originale del peccato, una grazia che in ogni circostanza, malgrado le nostre manchevolezze, nel cuore stesso delle infelicità e sofferenze che possono colpirci, dei duri passaggi culturali ed economici della nostra società, ci tiene in piedi, ci custodisce, ci rialza o ci riconduce nella dignità dei figli e delle figlie di Dio. Maria, aiutaci a credere, a fidarci anche quando la prova e il dolore sembrano negare la presenza del Signore e il suo amore di Padre. Ti preghiamo di liberarci dalla presunzione di volere conoscere e comprendere tutto e di vincere il nostro orgoglio che a volte reclama solo pretese e meriti e non ci fa contemplare le meraviglie dell’amore gratuito di Dio!


M.T. A.S.

A nome della Comunità Parroccchiale


AUGURI, DON VINCENZO!

“Se non avessimo il Sacramento dell’Ordine, noi non avremmo Nostro Signore. Chi l’ha messo nel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha ricevuto la vostra anima al suo ingresso a questo mondo? Il sacerdote. Chi la nutre per darle forza di fare il suo pellegrinaggio? Sempre il sacerdote. Chi la preparerà a comparire davanti a Dio, lavando l’anima per la prima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, ogni volta il sacerdote. Se l’anima, poi, giunge all’ora del trapasso, chi la farà risorgere, rendendole la calma e la pace? Ancora una volta il sacerdote. Non potete pensare a nessun beneficio di Dio senza incontrare, insieme a questo ricordo, l’immagine del sacerdote”.
Sono pensieri di Giovanni Maria Vianney, meglio noto come il Santo Curato d’Ars, beatificato l‘8 gennaio 1905 e canonizzato il 31 maggio 1925, patrono dei sacerdoti di tutto il mondo. Il 19 giugno 2009, in prossimità della solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù – giornata tradizionalmente dedicata alla preghiera per la santificazione del clero – Benedetto XVI indiceva ufficialmente un “Anno Sacerdotale” in occasione del 150° anniversario del “dies natalis” di Giovanni Maria Vianney.
“Tale anno – scriveva tra l’altro il Pontefice - vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi […]. “Il Sacerdozio è l’amore del cuore di Gesù”, soleva dire il Santo Curato d’Ars. Questa toccante espressione ci permette anzitutto di evocare con tenerezza e riconoscenza l’immenso dono che i sacerdoti costituiscono non solo per la Chiesa, ma anche per la stessa umanità”.
Sono premesse indispensabili per formarsi un’idea corretta – non influenzata dalle dicerie e dai pettegolezzi - sulla missione del sacerdote, chiamato ad offrire il Cristo al mondo non di certo per espandere il potere della Chiesa sulle anime, ma per far lievitare l’umanità verso il punto omega, la ricapitolazione di tutte le cose in Dio, nel suo amore che è da sempre ed è per sempre. Il 40° anniversario di sacerdozio di don Vincenzo va visto ed interpretato in questa ottica, nella prospettiva di un servizio esigente reso all’uomo ed alla comunità, affinché tutti abbiano a beneficiare di una parola di conforto, della parola che salva e redime, di un aiuto morale e concreto, di un apporto di fede e di speranza.
Il mio lungo sodalizio con lui e la comunità del SS. Redentore mi ha aperto nuove strade. Grazie alla sua amicizia ho potuto mettere a frutto i miei talenti, quelli che Dio mi ha dato senza alcun merito da parte mia.
Anche questo rientra fra i compiti del sacerdote illuminato: servirsi dei battezzati per servire meglio la comunità, comprendendone le inclinazioni, i talenti, i limiti, anzi facendo di questi ultimi i tasselli dell’edificio comunitario.
Pensiamoci bene: sono i nostri limiti il confine dove si esauriscono le nostre possibilità e si attivano le possibilità degli altri, che si integrano e completano con le nostre. La comunità cristiana è comunità di forti nella fede, non di onnipotenti nelle faccende del mondo. Su di queste possiamo intervenire senza, molto spesso, potere nulla. Se taluni si servono delle loro comunità per lucrare le indulgenze del mondo ed il favore dei potenti, ebbene, in essi non vi è lo spirito cristiano, vi alligna piuttosto lo spirito del mondo, inteso come tutto ciò che si frappone ai piani d’amore e di gratuità di Dio verso ogni uomo. Per tale ragione Gesù ci mette in guardia dai falsi profeti e dai lupi, da coloro che non si curano del gregge, ed esalta invece la fede del centurione, cioè di un pagano.
Paradossalmente nel pagano – potremmo oggi dire in coloro che ci sembrano distanti – c’è lo spirito di Dio, mentre in molti sacerdoti e credenti – dobbiamo dirlo senza peli sulla lingua – fermenta lo spirito del mondo.
Posso dire, senza adulazione alcuna, che con don Vincenzo ho percorso un cammino di crescita spirituale. Lo ringrazio sinceramente per l’amicizia e per quanto ha fatto per me, per questa comunità parrocchiale, con spirito cordiale e mosso dalle migliori intenzioni.
Nella Bibbia il numero 40 ha un forte significato simbolico. Gesù stette nel deserto per 40 giorni alle prese con le tentazioni diaboliche. Per 40 anni gli ebrei vagarono nel deserto. Il numero 40 rappresenta un lungo periodo di tempo, una sorta di crogiuolo temporale e di esperienze, di lotte e di vittorie, di progressi e di sconfitte. Ciò vale anche per don Vincenzo, che ha percorso un lungo tratto di strada e che, come sosteneva il Curato d’Ars, è un dono di Dio.
Gli auguro di raccogliere i frutti del suo disinteressato impegno già qui ed ora, e che lo circondino l’affetto e la stima dei suoi parrocchiani, dei suoi confratelli e superiori. Semplicemente perché se li merita.


Salvatore Bernocco

ANNO SACERDOTALE

Questo anno, che vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi. “Il Sacerdozio è l’amore del cuore di Gesù”, soleva dire il Santo Curato d’Ars. Questa toccante espressione ci permette anzitutto di evocare con tenerezza e riconoscenza l’immenso dono che i sacerdoti costituiscono non solo per la Chiesa, ma anche per la stessa umanità. Penso a tutti quei presbiteri che offrono ai fedeli cristiani e al mondo intero l’umile e quotidiana proposta delle parole e dei gesti di Cristo, cercando di aderire a Lui con i pensieri, la volontà, i sentimenti e lo stile di tutta la propria esistenza….
A questo proposito, gli insegnamenti e gli esempi di san Giovanni Maria Vianney possono offrire a tutti un significativo punto di riferimento: Il Curato d’Ars era umilissimo, ma consapevole, in quanto prete, d’essere un dono immenso per la sua gente: “Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare ad una parrocchia e uno dei doni più preziosi della misericordia divina”. E spiegando ai suoi fedeli l’importanza dei sacramenti diceva: “Tolto il sacramento dell’Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire dinanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest’anima viene a morire [per il peccato], chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote… Dopo Dio, il sacerdote è tutto!… Lui stesso non si capirà bene che in cielo”.


Benedetto XVI, lettera di indizione

Nel Mese

Molto sentito il pellegrinaggio fatto a Pompei per concludere lì, ai piedi della Vergine il mese di ottobre a Lei consacrato.
Utile poi la sosta a venerare nel Gesù Nuovo in Napoli S. Giuseppe Moscati.
Molto si intensificò la catechesi a tutti i livelli con relativi incontri col Gruppo dei catechisti e il Gruppo Caritas che ha programmato iniziative per il tempo di Avvento. Le lezioni quindicinali “Attraversando i Vangeli” sono state incrementate da un numero considerevole di presenze e il parroco ha concluso il ciclo del tema “I vivi non muoiono e i morti non risorgono”. Il giorno 15 poi il Gruppo famiglia parrocchiale ha fatto visita col parroco ai presepi napoletani soffermandosi soprattutto a quelli della Certosa di S. Martino in Napoli. Dal 9 novembre don Vincenzo è stato ad Assisi con altri sacerdoti della diocesi per gli annuali Esercizi Spirituali. Ci preparammo poi alla solennità di Cristo Re, Titolare della parrocchia e la sera del 22 dopo l’adorazione fu recitato l’Atto di Consacrazione cui seguì la celebrazione solenne dell’Eucarestia. Moltissimi fedeli -come sempre-gremirono la nostra chiesa anche se il vescovo fu impossibilitato ad essere presente; ma lui ama dire che “anche quando il vescovo non c’è, c’è!”.
Adeguatamente poi il parroco ci introdusse ai temi dell’Avvento che ci vedrà impegnati iniziando dalla Novena all’Immacolata e la Settimana Eucaristico-Sacerdotale per prepararci alla celebrazione del 40°Anniversario di Sacerdozio del nostro Parroco.
L’adorazione Comunitaria del 1°Giovedì e quella del 23 animata dal Gruppo di Preghiera di P. Pio impreziosirono l’impegno pastorale di novembre.


Luca

CON FIDUCIA E OTTIMISMO...

Miei Cari,
avendo dato ormai inizio al lavoro pastorale di quest’anno, impostato sulle linee direttrici offerteci dal nostro vescovo don Gino, viene spontaneo di riflettere sulle parole di Gesù: “Il Regno di Dio è come un uomo che sparge in terra la semente: dorma o vegli, di notte e di giorno, la semente germoglia e cresce senza che egli sappia come…”.
L’irruzione del Regno di Dio è paragonata a un raccolto. L’inattività del contadino è descritta in maniera immaginifica: dopo aver seminato il giorno, continua a vivere nell’alternanza dall’andare a dormire e dell’alzarsi, dei giorni e delle notti, senza che egli sappia come e senza che egli vi possa nulla, il seme produce prima l’erba, poi la spiga, poi il grano pieno sulla spiga. Enumerando i vari stadi della crescita, Gesù ne sottolinea il carattere irresistibile.
È un po’ come quella impazienza di raccogliere fichi da un albero fuori stagione: l’uomo deve poter dar frutto in tutte le stagioni della sua esistenza.
Di qui, miei Cari, l’impegno a mettercela tutta nel nostro lavoro di Comunità(mi riferisco agli operatori pastorali e ai catechisti soprattutto). Perché, ecco, un giorno arriva l’ora che il Signore riconferma questa paziente attesa; il grano è maturo, le grida di gioia esplodono: è il momento di mietere.
Si tratta, miei Cari, mentre lavoriamo in silenzio, di attendere pazientemente: non bisogna forzare i tempi, ma con fiducia totale abbandonarsi a Dio.
Il frutto esce dal seme, la fine dall’inizio. In ciò che è minuscolo agisce già ciò che lo renderà immenso.
Nell’istante presente ha preso il via ciò che dovrà arrivare, ma tutto è ancora nascosto.
Di fronte alle leggi di inerzia che sembrano intralciare l’opera di Dio c’è bisogno di ottimismo e serenità.
L’ottimismo si confonde con la gioia e con la pace: non si turbi il vostro cuore, dice Gesù, l’ottimista. Egli nascondeva una cosa ed era la sua gioia, diceva Chesterton. E la serenità accompagna di solito la fiducia in Dio. A noi è sufficiente portare a realizzazione il compito di cristiani con piena tranquillità.
La serenità ridimensiona il nostro lavoro e lo mette al suo posto giusto. È sempre Dio che avrà l’ultima parola.
Il vero progresso della nostra Comunità si realizza soprattutto nel diventare santi; lo abbiamo meditato in questi giorni.

Cordialmente,
Don Vincenzo


Oggi conviventi, domani sposi?

Chiedono il matrimonio cristiano, ma una coppia su tre già vive insieme. Animatori e famiglie dibattono il problema. Parola d’ordine: ri-parliamo agli adolescenti dell’amore vero.
Come vedete, cari lettori e lettrici, ho detto tutto, o quasi. Però, è d’obbligo precisare un poco. Dilaga il fenomeno delle convivenze.
C’è chi, nella foga di trovar rimedi, si lancia per teorie, tipo: i giovani sognano la famiglia, ma non scommettono su se stessi, non sono disposti a mettersi in gioco, hanno poi bisogno di “prove” e si illudono che la convivenza possa dare garanzie per un futuro di felicità. Basta, capito!
Leggendo il resoconto emerso da un convegno in proposito, ho immagazzinato una buona idea. Non giudicatela banale. E, anzitutto, fatemela citare: “Una delle soluzioni obbligate sta in un rinnovato sforzo di educazione ai sentimenti e all’affettività, cominciando dagli adolescenti. Perché è a 16, 17 anni che s’impara l’amore. Quello vero, chiaramente”.
E adesso fatemi parlar serio. Dalla Settimana di formazione per gli operatori della pastorale familiare, tenuta a Crotone nel giugno scorso, è emerso un dato poco confortante e in parte ancor meno spiegabile.
Eccolo: “Il 90% delle diocesi italiane non segnala nessuna iniziativa specifica sul tema delle convivenze. Solo il 10% delle diocesi, invece, ha elaborato qualche sporadica esperienza d’accompagnamento, a volte con percorsi formativi ad hoc, a volte istituendo due corsi paralleli per rispettare e valorizzare le diverse realtà di vita delle coppie”.
Che cosa vuol dire, che le convivenze sono un problema rimosso dalla coscienza e dall’attenzione delle comunità cattoliche?
Bisogna calarsi nei fatti, e i fatti dicono che in Italia, per moltissimi giovani, è la convivenza di coppia il luogo privilegiato in cui matura la scelta del matrimonio cristiano. Sembra un controsenso: convivenza e percorso verso il matrimonio cristiano.
Calarsi nei fatti non è lo stesso che accettarli e basta. Da un lato, se queste coppie di conviventi decidono di regolare la propria unione con il sacramento, è una cosa positiva e va accolta di buon grado.
Dall’altra parte risulta evidente che, limitandosi alla pura accettazione della situazione di fatto si finisce per fare apparire bigotti i fidanzati per così dire tradizionali. Per tali motivi, condivido appieno l’idea sopra riportata, e cioè che bisogna lavorare maggiormente negli spazi formativi degli adolescenti. Prevenire, ripensare l’intero ciclo dell’educazione familiare, piazzandovi l’assillo e la fatica dell’iniziazione dei figli all’amore.

Il vecchio eremita

C’era una volta un vecchio eremita che si lamentava di essere sempre occupatissimo. La gente non capiva come fosse possibile che avesse tanto da fare. “Devo domare due falconi, allenare due aquile, tenere quieti due conigli, vigilare su un serpente, caricare un asino e sottomettere un leone”.
“Non vediamo nessun animale vicino alla grotta dove vivi. Dove sono tutti questi animali?”. Allora l’eremita diede una spiegazione che tutti compresero: “Questi animali li abbiamo dentro di noi. I due falconi si lanciano sopra tutto ciò che si presenta, buono e cattivo. Devo allenarli perché si lancino solo sopra le buone prede… Sono i miei occhi.
Le due aquile con i loro artigli feriscono e distruggono. Devo allenarle perché si mettano al servizio e aiutino senza ferire... Sono le mie mani.
E i conigli vanno dovunque vogliano, tendono a fuggire gli altri e schivare le situazioni difficili. Devo insegnar loro a stare quieti quando c’è una sofferenza, un problema o qualsiasi cosa che non mi piaccia… Sono i miei piedi. La cosa più difficile è sorvegliare il serpente, anche se si trova rinchiuso in una gabbia. È sempre pronto a mordere e avvelenare quelli che gli stanno intorno, se non lo vigilo da vicino fa danno… È la mia lingua. L’asino è molto ostinato, non vuole fare il suo dovere. Pretende di stare a riposare e non vuole portare il suo carico di ogni giorno… È il mio corpo.
Finalmente ho necessità di domare il leone, vuole essere il re, vuole essere sempre il primo, è vanitoso e orgoglioso… Questo è il mio cuore”.

Verso la fine dell’Anno Liturgico

L’ultimo versetto dell’ultimo libro della Bibbia, Apocalisse 22,20 così si esprime: “Colui che attesta queste cose dice: “Sì verrò presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù. La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi. Amen”. La stessa preghiera torna qualche versetto prima in Ap 22,17: “Lo Spirito e la sposa dicono: ‘Vieni’. E chi ascolta ripeta: ‘Vieni’”. E l’invocazione “Vieni, Signore Gesù” viene espressa con la parola aramaica maranà tha. In realtà Maranà tha corrisponde al messaggio del libro: Vieni! Una supplica rivolta al Signore Gesù (v. 20): è il Maranà tha che si ripeteva durante le riunioni liturgiche cristiane (1Cor 16,22: “Se qualcuno non ama il Signore sia anàtema. Maranà tha: vieni, o Signore!”) per esprimere l’attesa impaziente della parusia o dell’ultima venuta del Signore (cf 1Ts 5,1 e 1Cor 15,23). La parola aramaica ricorre anche nella Didaché (10,6). E può avere diversi sensi. Esclusa ogni spiegazione che la intenda come formula di invito eucaristico, ecco alcune interpretazioni:
  • La si divide in maran atà, tradotto, come in Ap 22,20, “il Signore viene”. Ma la forma aramaica è quella del perfetto, e si dovrebbe tradurre con “il Signore è venuto”. Infatti la forma del presente sarebbe ’ate.
  • Si può dividerla in maranà tha, che sarebbe: “Vieni, Signore Gesù”. Ma non è molto sicura nell’aramaico della Palestina.
  • L’uso in senso di anatema si rifarebbe a frasi similari dei Salmi: “Il Signore viene a giudicare la terra” (Sal 96,13). E pare che lo stesso significato abbiano alcune invocazioni dell’AT e del NT, sia nel senso del tempo ultimo che in senso presente (2Tm 4,1).
  • Considerando poi ulteriori possibilità, il secondo elemento di maranata, potrebbe indicare semplicemente due lettere, la prima e l’ultima dell’alfabeto. In Ap 1,8; 21,6 (si tratta di Dio Padre) e in 22,13 (riferito a Gesù Cristo) si dice: Io sono l’Alfa e l’Omega”. La Volgata ha: Ego sum alpha et omega, prima e ultima lettera dell’alfabeto greco. E questo sarebbe forse l’originale greco.
  • In maranata, “Vieni, Signore Gesù”, potrebbe essere vista anche una firma o un segno a modo di rubrica, che sarebbe un contrassegno segreto conosciuto dai cristiani (2Ts3,17). Quindi l’alfa e omega “Vieni, Signore Gesù”, sarebbero contrassegni segreti che garantirebbero la genuinità del libro e illuminerebbero tutto il resto.

A conclusione, sembra che la spiegazione più accettabile per le ultime parole dell’Apocalisse debba essere quella di un semplice desiderio (marana tha): “Vieni, Signore Gesù, subito, come dici!”, e forse, anche se non appare chiaramente, quella di un contrassegno convenuto a modo di firma.
Al di là delle possibili spiegazioni, la realtà è che Maranà tha rimane una parola carica di significato molteplice e racchiude nella sua invocazione tutto l’anelito dello spirito umano, l’attesa e la nostalgia di Dio, lo zelo per il suo regno di giustizia e di pace, l’amore struggente del credente verso il suo Signore e l’avvento di una umanità migliore. Che preghiera intensa in una sola parola!

Leo Dani

VIZI PRIVATI E PUBBLICHE VIRTU’

Lungi da noi fare del moralismo. La fede va al di là dei moralismi, spesso di facciata, valevoli per gli uni e non per gli altri. Né va dimenticato che bisogna odiare il peccato e mai il peccatore, perché peccatori lo siamo tutti, ognuno di noi ha i suoi scheletri nell’armadio dell’anima. Tutti abbiamo bisogno della misericordia e della grazia del Padre, di essere rigenerati a nuova vita, di convertirci a stili di vita più aderenti a quello evangelico. Quindi niente ipocrisie e perbenismi. L’uomo è fragile e fallibile. Le ultime vicende scandalose che hanno riguardato l’ex presidente della Regione Lazio Marrazzo hanno suscitato scalpore e non pochi commenti salaci. La notizia terrà banco per qualche tempo ancora, nelle more di qualche altro scandalo all’italiana. Ma lo squallore del fatto, dei luoghi, dei personaggi, però, non deve indurci ad ergerci a giudici di persone e situazioni di cui sappiamo poco o nulla, o meglio soltanto quello che viene pubblicato dai giornali o di cui parla la televisione. Spesso queste tristi vicende nascondono retroscena inconfessabili e, forse, battaglie politiche condotte su altri piani. Uno di questi consiste nella demolizione della persona: se non puoi colpirne gli atti pubblici, devi tentare di sferrare il colpo mortale e di metterla fuori gioco pescando nel torbido, nella sua vita privata, anteriore o attuale. Scava e qualcosa di certo troverai, fosse anche un neo o un piccolo vizio. Nel caso Marrazzo c’è questo ed altro. C’è un cocktail di ricatti e di intrecci oscuri, di soffiate e di vizi privati, di gossip e di favori trasversali. C’è soprattutto la verità di un episodio che, al di là di ogni altra considerazione, lascia sconcertato chi ritiene che la politica debba essere fatta da uomini e donne al di sopra di ogni sospetto, moralmente sane ed affidabili, dedite al bene comune piuttosto che al vizio privato. Per chi fa politica il privato costituisce una dimensione molto risicata.
L’uomo politico è sempre sotto i riflettori, e le sue vicende personali ne condizionano il giudizio pubblico. È inevitabile ed è giusto che sia così. Uomini come Alcide De Gasperi, come Amintore Fanfani, come Aldo Moro, come Berlinguer, come Almirante e Giorgio La Pira ebbero una condotta privata esemplare. Non erano ricattabili. Non andavano a festini e non si circondavano di donzelle scollacciate in cerca di notorietà. Non sniffavano cocaina e si occupavano seriamente del bene comune, sebbene da posizioni ed orientamenti politici differenti. Mi si dirà che i tempi sono cambiati, che gli uomini non sono più quelli di una volta. È vero, è incontestabile che siano cambiati, ma è anche vero che ci sono uomini e donne che credono in determinati valori umani e cristiani e che si battono per una società più giusta. Guardiamo a costoro, lasciando a chi ha sbagliato la possibilità di redimersi, ma lontano dalla politica.

Salvatore Bernocco

Gesù sì, la Chiesa no!

È dunque necessario cercare di
ricomporre e analizzare i legami che li
uniscono onde evitare confusioni o
contrapposizioni che non ci
permetterebbero di vederli in modo
unitario e inscindibile.
Anzitutto se rileviamo alcuni dati che ci
vengono trasmessi dai vangeli ci
rendiamo conto come sin dall’inizio del
suo ministero pubblico Gesù ha iniziato
a predicare l’avvento del Regno di Dio,
chiedendo la conversione e donando il
perdono dei peccati. Mentre svolge
questa missione affidatagli da Dio, Egli
non si limita solo ad annunciare, ma
chiama anche alcuni dei suoi ascoltatori
a seguirlo, a stare con Lui, costituendoli
discepoli, apostoli, creando così una
piccola comunità voluta da Lui, che sarà
la prima testimone di quanto farà e dirà.
E vediamo anche che questa nuova
comunità viene chiamata, in modo
privilegiato, ad essere protagonista di
questa missione.
In Mt. 16, 17-19, Gesù su Pietro, capo
degli apostoli, fonda la sua Chiesa
assicurando che il male non avrebbe
mai prevalso su di essa e dandole il
potere di legare e di sciogliere cioè di
agire in nome suo, e in un altro brano
invia questo gruppo ad annunciare, a
donare il battesimo, a proclamare la
liberazione, la buona novella, in poche
parole il Regno di Dio.
Questa nuova comunità viene chiamata
a custodire fedelmente e integralmente
il messaggio di Gesù e non solo, perché
viene anche chiamata a proporlo a tutti
come via che conduce alla salvezza.
Possiamo dunque dire che nel periodo
pre-pasquale Gesù ha preparato la
fondazione della Chiesa - nella sequela
e nell’istituzione dei suoi discepoli - ma è anche vero che l’autentico atto di fondazione dovette tuttavia avvenire quando Gesù Risorto ebbe compiuto la sua opera e in forza della sua morte e risurrezione potè alitare il suo Spirito sulla Chiesa nascente.
Il Cristo dunque appare e chiama i suoi testimoni a formare la nuova comunità e li trasforma nel suo Corpo. E’ di fondamentale importanza la risurrezione perché senza di essa non si darebbe né Chiesa né Fede, perché la fede pasquale costituisce e conferma la comunità-Chiesa.
Dobbiamo anche ammettere che la Chiesa come istituzione si è sviluppata non solo a livello gerarchico ma anche a livello dottrinale. Questo però non vuol dire che Essa sia cambiata o non sia più quella voluta da Cristo. La Chiesa, lungo i secoli, ha dovuto affrontare eresie, lotte, contraddizioni, e anche periodi bui.
Questo però è inevitabile proprio perché formata da uomini soggetti a sbagliare.
La Chiesa ha anche cercato di adeguarsi ai tempi, di camminare con la storia, non poteva rimanere quella di 2000 anni fa.
Questo ci permette di capire il perché di certi cambiamenti; occorre però sottolineare che la sua dottrina, la sua fede, il suo credo, quello che Gesù le ha voluto affidare è rimasto immutato, perché la Chiesa non potrebbe mai arrogarsi il diritto o potere di modificare ciò che Dio stesso in Cristo le ha voluto rilevare e consegnare.
Possiamo dunque concludere dicendo che tra Gesù e la Chiesa c’è un legame strettissimo, e non possiamo preferire l’uno e rifiutare l’altro, o ritenerli come due realtà separate. La Chiesa è il luogo privilegiato per incontrare Cristo ed è via di salvezza.
Già l’apostolo parlando della Chiesa la definiva come il corpo di Cristo. Amiamo dunque Gesù e anche la sua Chiesa perché attraverso di essa raggiungiamo e conosciamo Lui che è la nostra salvezza.

Nel Mese

È stato motivo di tanta gioia vedere gremita ogni sera l’ampia navata della nostra chiesa per il mese di ottobre dedicato alla Madonna di Pompei che abbiamo poi venerata il 1° novembre recandoci in pellegrinaggio al suo Santuario. È ripresa poi tutta l’attività parrocchiale con gli incontri a tutti i livelli soprattutto con i catechisti e i genitori dei bambini che si preparano ai sacramenti. Un particolare momento è stato vissuto per la celebrazione dei 110 anni della presenza Vincenziana in Ruvo. Sono intervenuti il Padre G. Carulli, prete della Missione e la Vice presidente regionale Lucia Tedesco i quali ci hanno parlato dell’attualità del servizio vincenziano e della perenne profezia del pensiero di S. Vincenzo de Paoli e S. Luisa dopo 350 anni. Un folto gruppo dei nostri si è poi portato a Molfetta per la immissione del nostro don Angelo Mazzone a parroco della Madonna della Pace, formulando a lui gli auguri di buon lavoro. Ha avuto poi luogo a Barletta la convivenza di inizio corso per la prima Comunità Neo-Catecumenale.
L’adorazione dell’inizio e della fine del mese, insieme alla solenne celebrazione del 31, presieduta dal Nunzio Apostolico Mons. Girasoli ha posto termine al mese di ottobre. Lo stesso arcivescovo ha inaugurato i lavori di pitturazione dell’intera chiesa, avvenuti lo scorso mese di settembre.

Luca

Napoli: Piazza del Gesù Nuovo. 1° Novembre 2009

Per una maggiore efficacia nel servizio pastorale

Miei Cari,
all’inizio del nuovo anno pastorale, perché tutto possa fondarsi su alcuni punti chiave del nostro operare, aiutato da amici di fede vi rendo partecipi di alcune riflessioni.
E parto anzitutto da questa convinzione e cioé che la fede non è mai come banalmente si usa dire un dono di Dio, perché una fede dono di Dio, questo giustifica le persone per non averne. Se la fede è un dono che Dio dà, è un Dio un po’ capriccioso perché ad alcuni dà tanta fede, ad altri così, così, ad altri per niente. Oppure altri hanno la fede e dicono: ne avevo tanta, ma poi quando si sono incontrati con un avvenimento negativo dell’esistenza l’hanno persa. E ciò perché si è scambiata la fede per l’assicurazione contro gli infortuni, per cui quando gli è capitata qualcosa di traverso hanno perso la fede.
Ma la fede non è il dono di Dio agli uomini. La Fede è la risposta degli uomini al dono d’amore che Dio fa a tutti quanti.
Con Gesù, da quando attraverso Lui, Dio, si manifesta sulla terra tra gli uomini, Egli diventa il fattore più importante per la spiritualità, non va più cercato, ma va accolto perché Dio è qui.
Egli è l’Emanuele, il Dio con noi, quindi non uno che dev’essere cercato, perché quando uno cerca Dio, pensa ad una sua immagine di Dio, ha una sua predilezione e finisce per non trovarlo mai. Non c’è nulla di più inutile che la ricerca di Dio. Con Gesù, Dio non dev’essere più cercato ma accolto. Con Gesù, l’uomo di fede con lui e come lui, si rivolge verso gli altri, per la felicità degli altri. Con Giovanni il battista c’è la religione, con Gesù c’è la fede e mentre con la religione si deve togliere per offrirlo a Dio, con Gesù si esprime nell’amore ciò che l’uomo accoglie in Dio per donarlo a tutti quanti; orientare la nostra vita per il bene degli altri ed essere responsabili della felicità degli altri: vivere per il bene degli altri. Se i nostri incontri di catechesi, sul Vangelo, se le nostre liturgie non sortiranno questi effetti, credo dobbiamo dubitare della nostra spiritualità. La fonte della spiritualità sta in questo: non l’uomo che con i propri sforzi si centra su se stesso, ma l’uomo che orienta la propria vita per il bene degli altri. Giustamente, ha scritto un teologo contemporaneo, il “siate santi” dell’Antico Testamento, viene contrapposto al siate compassionevoli del Nuovo Testamento.
Gesù dirà invece “siate compassionevoli, misericordiosi come il Padre vostro”, perché Dio è amore; la misericordia è l’espressione tangibile di questo amore. E perché sia reale deve essere accompagnata da gesti di servizio. Che ve ne pare? Animiamo il nostro lavoro pastorale con questi concetti perché sia più proficuo, più incisivo e sempre ci mantenga in sintonia con Dio e i fratelli.

Buon lavoro.

Don Vincenzo


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Tra la fine di agosto e l’inizio di settembre la nostra chiesa parrocchiale si è rifatta il look. Era necessaria ormai la pitturazione di tutta la navata, l’abside e i locali annessi alla parrocchia. Ciò ha voluto essere un segno anche per prepararci alla grande Settimana Eucaristica-Sacerdotale (si sta celebrando l’anno sacerdotale) che avrà luogo i giorni prima dell’Immacolata, ricorrendo il 40° anniversario dell’Ordinazione Sacerdotale del nostro parroco, don Vincenzo.




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1° NOVENBRE: PELLEGRINAGGIO A POMPEI
e visita al “Cristo Velato” in Napoli.
Partenza ore 5,30.


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La nostra comunità è lieta di partecipare ai suoi amici che sabato 3 ottobre il nostro vescovo Don Gino immetterà nel servizio pastorale della parrocchia della Madonna della Pace in Molfetta il nostro
Don ANGELO MAZZONE
Formatosi nella nostra parrocchia e di qui avviato al ministero presbiterale.
A lui l’augurio di offrire le sue giovanili e qualificate doti per mettercela tutta (ne siamo certi) a servizio della giovane Comunità che la lungimiranza del vescovo ha voluto affidargli.

Mai drammatizzare

In che cosa abbiamo sbagliato se ora siamo delusi dei nostri figli?

Amici genitori, mettete da parte i sogni accarezzati di figli splendidi, intelligenti, brillanti. Guardate la realtà. L’arte dell’educazione è molta sofferenza e lunga attesa.
I genitori commettono molti sbagli. Dov’è l’anomalia? Se non vi sentite genitori perfetti, state nella norma.
Questa è la prima realtà da accettare: non sono mai esistiti né figli né genitori perfetti. Perciò non drammatizzate se i vostri ragazzi vi deludono e non vi avvilite se vedete che essi sono delusi di voi. Nella fase dell’adolescenza troverete difficilmente genitori e figli d’accordo e felici. Questo problema subisce oggi i contraccolpi dei nuovi e stravaganti modelli di comportamento. Va di moda l’anticonformismo sfacciato, la trasgressione. L’avere a dispregio le norme morali è motivo di orgoglio. Ne è maestra una tivù sbracata, ne sono alunni i nostri poveri figli.
Voi non potete impedire ai ragazzi di percepire e sentire l’attrattiva di simili modelli, potete però indurli a riflettere, a ragionare per trovare una misura.
Cosa facile a dirsi, meno ad attuarsi.
Comunque, ai genitori non si chiede necessariamente capacità dialettica per confrontarsi con figli culturalmente scaltriti. Ma voi potete sempre trovare le vie del cuore. L’adolescente, anche il più difficile, lascia spesso aperti dei varchi, attraverso il quale il linguaggio dell’amore può entrare e fare breccia.
Le mamme sanno cogliere queste occasioni. Per il resto, siamo davanti ai figli portatori di valori e preghiamo per loro. Dopo le crisi adolescenziali verrà l’età di più composti equilibri.
Allora l’immagine di papà e mamma tornerà e sarà punto fermo per l’ex adolescente recalcitrante.

O. e M.

“TRA SOGNI E SPERANZE PER UN PROGETTO DI VITA”

Linee pastorali per il biennio 2009-2011

Il nostro Vescovo Mons. Luigi Martella, dopo le prime due tappe dell’interiorità e della relazionalità, ci parla della terza fase del cammino diocesano con i giovani: la progettualità. Lo fa con un testo di 36 pagine fitte di spunti di analisi, “Tra sogni e speranze per un progetto di vita”, con cui, piuttosto che impartire diktat dai quali non ci si deve discostare, invita affettuosamente i giovani (e gli adulti) a riflettere su alcune questioni dalle quali conseguirà la qualità del loro futuro, lo spessore delle loro esistenze, la riuscita delle loro vite. Se alla interiorità si addice la ricerca del Senso, cioè di Dio, che dà il senso primo ad ogni cosa, e se alla relazionalità appartiene la qualità dei rapporti, delle relazioni con noi stessi e con gli altri, alla progettualità si chiede di dare contenuto tanto alla prima quanto alla seconda, nel senso che una vita senza un progetto per e con gli altri, che si nutre di interiorità e fede, assomiglia più ad un moto senza senso che ad un cammino di liberazione in vista dell’incontro con Colui che ha fatto cielo e terra e che fa nuove tutte le cose.
Ai giovani, che vengono definiti “specialisti del presente”, assorbiti come sono dall’oggi, dal momento, il Vescovo prospetta un percorso all’insegna del servizio che fa della felicità non un miraggio, ma una realtà a portata di mano, sebbene avremo sempre a che fare con limiti e sofferenze insiti nella nostra natura.
È indubbio che la felicità sia la massima aspirazione umana. Un progetto che punti alla felicità è lastricato di doveri e responsabilità, di fatica quotidiana, di studio e sacrificio, mentre le proposte “mondane” indicano strade alternative che, in realtà e a conti fatti, producono dolore e disorientamento.
Basta dare un’occhiata a certe riviste e a certi spettacoli televisivi per accorgersi che ai giovani si offrono modelli facili, superficiali, tutti incentrati sull’estetica piuttosto che sull’etica, su certe “misure” piuttosto che sui contenuti. Modelli virtuali piuttosto che virtuosi.
La stessa politica italiana è scossa da comportamenti a dir poco discutibili, messi in atto da uomini e donne che dovrebbero fungere da esempi di rettitudine ed integrità morale.
Impostare la propria vita sulla superficialità espone alla inquietudine, scivola via senza lasciare traccia.
Compete alle agenzie educative fornire materiale per costruire sulla roccia dei valori umani e cristiani. L’alternativa è un mondo apparentemente seducente, ma in realtà vecchio e decadente.

Salvatore Bernocco

“Chi vede Me, vede il Padre”

Non Gesù è come Dio, ma Dio è come Gesù

Al termine del Prologo al suo vangelo,Giovanni scrive infatti che “Dio nessuno lo ha mai visto: l’unico figlio, che è Dio ed è in seno al Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18) Affermando che Gesù è colui che ha rivelato agli uomini il volto del Padre (Gv 1,18), Giovanni invita il lettore a prestare attenzione alla persona di Gesù, poiché solo in lui si può conoscere il vero volto di Dio.
Per Giovanni non si deve partire da un’idea preconcetta di Dio per poi concludere che Gesù è esattamente uguale a lui. Il punto di partenza non è Dio ma Gesù. Non è Gesù uguale a Dio, ma Dio uguale a Gesù. Ogni immagine di Dio che non corrisponde e non coincide con quel che Gesù ha detto e fatto è un’immagine inesatta, errata e va cancellata.
Gesù condiziona la conoscenza del Padre a quella a se stesso: “Se voi mi conosceste conoscereste anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto” (Gv 14,7). Condizionando la conoscenza del Padre alla sua, Gesù fa comprendere che questa conoscenza, dinamica e continua, porta a un processo di pienezza vitale. Più è vera e autentica l’adesione a Gesù e più grande è la possibilità di conoscenza del Padre. Ma uno dei discepoli, Filippo, non comprende le parole del suo maestro e continua a distinguere Gesù dal Padre: “Gli disse Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta””. “Gli rispose Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai [ancora] conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre?”” (Gv 14,8-9).
La tradizione religiosa su Dio può condizionare talmente un individuo da impedirgli l’esperienza del Padre. Filippo da tanto tempo con Gesù non ha ancora compreso la sua identità. Non comprende che in Gesù si manifesta il Padre. Gesù è l’unica fonte per conoscere Dio (Gv 1,18): Il Padre è esattamente come Gesù.
Con Gesù Dio non è più da cercare. Chi cerca Dio si pone alla ricerca di una divinità più immaginaria che reale e non giunge mai alla conclusione del suo cammino.
Con Gesù Dio non è da cercare ma da accogliere. Mentre la ricerca è tanto astratta e lontana quanto è astratta e confusa l’immagine che si ha di Dio, l’accoglienza è concreta e immediata.
Non si tratta di cercare Dio, ma di accoglierlo e con lui e come lui dirigere la propria esistenza verso gli altri.
Dichiarando che Dio nessuno l’ha mai visto, l’evangelista contraddice quanto la stessa Scrittura affermava. Nella Bibbia si trova chiaramente asserito che molti personaggi hanno visto Dio: Mosè con Aronne, Nabad, Abiu e settanta anziani al momento della conclusione dell’alleanza al Sinai “videro il Dio d’Israele… e tuttavia mangiarono e bevvero” (Es 24,10-11; 33,11; Nm 12,6-8; Dt 34,10).
Con la sua affermazione, l’evangelista relativizza l’importanza di queste affermazioni: nessuno ha mai visto Dio. Per cui tutte le descrizioni che ne sono state fatte sono tutte parziali, limitate e a volte false.
Escludendo qualunque persona, di fatto l’evangelista esclude pure Mosè. No, Mosè non ha visto Dio di conseguenza la Legge che ha trasmesso non può riflettere la pienezza della volontà divina. Pertanto la Legge non solo non favorisce la conoscenza di Dio, ma è l’ostacolo che l’impedisce.


P.A. M.

PADRE PIO: UOMO DI PREGHIERA E DI SOFFERENZA

Padre Pio fu uomo di preghiera e di sofferenza. Queste parole del Servo di Dio Paolo VI furono ricordate da S.S. Benedetto XVI durante la sua visita pastorale a San Giovanni Rotondo il 21 giugno scorso, soggiungendo che “Padre Pio conservò i propri doni naturali, e anche il proprio temperamento, ma offrì ogni cosa a Dio, che ha potuto servirsene liberamente per prolungare l’opera di Cristo: annunciare il Vangelo, rimettere i peccati e guarire i malati nel corpo e nello spirito”. Alla potente intercessione del Santo di Pietrelcina si rivolgono migliaia di persone bisognose di aiuto, che guardano a lui con fiducia, fermo restando che è sempre Dio che opera i miracoli. I santi sono strumenti di Dio, matite di Dio, per usare una espressione di Madre Teresa di Calcutta.
La Comunità parrocchiale del SS. Redentore, dove sorse il primo gruppo di preghiera di Padre Pio, onora il Santo da ben venticinque anni. Grazie alla famiglia Tota fu eretto nel 1988 un bel monumento bronzeo del Padre, nei pressi del quale, la sera del 22 settembre scorso, si è recitato il rosario meditato guidato dal parroco Mons. Vincenzo Pellegrini. Al termine della partecipata novena, la messa solenne del 23 è stata presieduta da Don Luigi Renna, rettore del Seminario Regionale, il quale ha lumeggiato questa grande figura di santo, universalmente nota ed amata. Come ha ricordato Sua Santità, una delle caratteristiche di Padre Pio era la preghiera.
“Come tutti i grandi uomini di Dio, Padre Pio era diventato lui stesso preghiera, anima e corpo. Le sue giornate erano un rosario vissuto, cioè una continua meditazione e assimilazione dei misteri di Cristo in unione spirituale con la Vergine Maria. Si spiega così la singolare compresenza in lui di doni soprannaturali e di concretezza umana. E tutto aveva il suo culmine nella celebrazione della santa Messa: lì egli si univa pienamente al Signore morto e risorto. Dalla preghiera, come da fonte sempre viva, sgorgava la carità”. La preghiera, quindi, quale fonte della carità, e la carità quale alimento della vita spirituale. È quanto ci invita a fare il Santo di Pietrelcina: mettere da parte l’egoismo, bandirlo dai nostri orizzonti e sposare la causa del Cristo, cioè l’amore per tutti e tutto, tutti provenendo da Lui e tutto essendo stato fatto per mezzo di Lui ed in vista di Lui.

S. B.

Nel Mese

Sia pure lentamente è ripresa l’attività pastorale con incontri informali di verifica e di ipotesi di lavoro a farsi per il nuovo anno. Intanto ci si è incontrati per il solenne triduo che si è concluso con la festa e la processione di S. Rocco nella prima domenica di settembre, come da antichissima tradizione. Un incontro con i catechisti ha messo a fuoco la situazione attuale e come si potrà far fronte ad un servizio più qualificato a vantaggio dei ragazzi. Anche l’A.C.I. parrocchiale ha ripreso a riflettere su questa formula e come ci si potrà organizzare per il prossimo anno. Come ormai da tanti anni -perché la devozione è nata in Ruvo nella nostra parrocchia- si è avuta una notevole partecipazione per le tre sere in onore di S. Pio e per la veglia del 22 settembre durante la quale c’è stata l’adorazione eucaristica. Il 23 poi, festa di S. Pio, le celebrazioni sono state ampiamente partecipate; la sera ha presieduto l’Eucarestia don Luigi Renna, nuovo Rettore del Seminario Regionale.
Egli ha tratteggiato la figura del Santo con puntuali pennellate, sottolineando il perché della vicinanza di tanta gente all’umile Frate di Pietrelcina. Hanno avuto inizio le iscrizioni alla Scuola di catechesi, mentre ha ripreso il lavoro il Gruppo Caritas che si è arricchito di un nuovo membro. La festa di S. Vincenzo de’Paoli è stata poi differita al mese di ottobre in cui verrà anche celebrato ol 110° anniversario del Volontariato Vincenziano in Ruvo. Il 24 infine si è riunito il Consiglio Pastorale per la programmazione annuale; durante l’incontro il parroco ha presentato le linee pastorali indicate dal nostro vescovo nel Convegno Pastorale del 17/18 settembre cui ha partecipato un nutrito gruppo dei nostri operatori pastorali.

Luca

Festa di S. Rocco: torna sempre ad essere riamato


Miei Cari,
con intelligenza e intuito pastorali, il vescovo don Gino ha accolto per quest’anno
la richiesta del Sodalizio di S.Rocco di riportare -come da tempi remoti- la festa esterna del Santo alla prima domenica di settembre, mentre la memoria liturgica ricade il 16 agosto. La festa esterna fu da sempre celebrata con tanta devozione e fede agli inizi di settembre e viene documentata da scritti e riproduzioni fotografiche. Alla fine dell’800 fu abbinata anche la processione della miracolosa
statua di S. Filomena cui era dedicata l’attuale parrocchia di S. Lucia e portata a Ruvo l’11 maggio 1835. Ai festeggiamenti subentrò la processione dei S.S. Medici e il vescovo Mons.Marena volle che il 28 settembre muovesse la processione della statua argentea di S. Rocco e alla quale partecipava egli stesso con l’intero Capitolo Cattedre e il collegio dei parroci.
Il 29 settembre, invece, avveniva quella dei S.S. Medici. Credo comunque che in giorno di domenica si evidenzia parimenti la santità di Dio che si manifesta nei Santi.
Sono poi contemporaneamente soddisfatti i Confratelli perché in tal modo non viene intaccato un giorno lavorativo come potrebbe avvenire se coincidesse con uno feriale.
L’approccio della nostra comunità a S. Rocco, da sempre considerato patrono minore di Ruvo, rimane forte e si rinsalda sempre più essendo stato Egli rifugio e speranza per le popolazioni di tutta l’Europa, impotenti di fronte al micidiale contagio incombente.
Ritengo che valga ancora di proporre e sottolineare la modernità insospettata di “testimone” autentico in una cultura ormai stanca di “sedicenti maestri”, un modello evangelico di distacco, povertà, semplicità per l’uomo di oggi, roso dalla follia dell’avere.
Rimane S. Rocco animatore di un servizio in un contesto in cui, assenti spesso i pubblici poteri, il volontariato è la sola risorsa. Esempio di altruismo in una realtà diversa per la razza e la cultura, difficile da amalgamare, che trova l’unica risposta nella “carità”.
Apostolo ancora una volta in un mondo inquinato da nuove forme di pesti.
Tutto ciò ci avverte che, non alla politica, alla tecnologia, alla scienza, realtà dalle molte potenzialità ma non definitive sono delegati le sorti dell’umanità, ma alla verità che è Dio. E il volto della verità è la carità, l’amore. S. Rocco ne è fulgido segno. Siano questi i pensieri che ci introducano nella festa che stiamo per celebrare.
Cordialmente.

Don Vincenzo

Quando la preghiera si fa pianto

Era un giorno di pioggia, scorreva lento l’autunno dell’ultima malattia.
Fu allora che mia madre mi insegnò, dalla sua cattedra di dolore, come pregare.
Ero seduto sul letto – volevo essere all’altezza dei suoi occhi‘– sul letto grande dove lei mi aveva dato alla luce. Dalla porta aperta vedevo in cucina la tavola di quercia, l’altare della casa. Le tenevo la mano, così ricca di pane e di carezze, mentre lei mi diceva: ´Figlio mio, prega adesso che stai bene, perché quando si sta male non si ha neppure voglia di pregareª. Così mi diceva, ma il suo corpo era preghiera.
Non ho più dimenticato quella fede dolente e amorosa che si preoccupava non di sé, ma si prendeva ancora cura di me; che – vangelo vivo – non pensava alla sua vita, ma alla mia. Mi diceva: non aspettare d’aver bisogno, prega nei giorni del bene, prega sui ponti degli affetti, prega sui sentieri della gioia, prega sui passi della luce.
Nella malattia è facile accusare, aggredire, ribellarsi o esserne spezzati: perché, Signore?
Perché a me? Difficile pregare nella malattia, perché il dolore è egocentrico al punto da eliminare ogni altro interesse. Ma difficile pregare anche per un altro motivo: che cosa chiedere al Signore?
Padre Turoldo ripeteva: ´Io non ho mai chiesto a Dio di guarirmi. Perché non può, non deve!
Perché deve guarire me e non il bimbo leucemico, o la giovane madre con il cancro? Invece ho sempre chiesto forza nella malattia, coraggio nella valle oscuraª.
Tuttavia, sotto la pressione della sofferenza, una preghiera resiste, ed è il gemito: dichiarazione che l’essere umano è un essere ferito, verità ultima dell’uomo: ´Padre, ho bisognoª. Il gemito: preghiera della ferita, quando non nego e non mi sottraggo al mio punto debole, quando non aggiro il dolore.
Quando percepisco Dio dal pulsare profondo della mia piaga.
Preghiera del corpo. Spesso, nel tempo della malattia, si compie in noi una perversa trasformazione: da vittime di un male che ci aggredisce a colpevoli di quello stesso male: è un castigo per quella colpa che mi pesa ancora. Ci comportiamo verso noi stessi come gli amici che visitano Giobbe (4,7-8) e lo colpevolizzano; ci trasformiamo in nostri persecutori anziché in consolatori. Ma il dolore non chiede spiegazioni, vuole condivisione. Non domanda motivazioni, cerca partecipazione. Malato e amici attendono insieme, con un cuore che si dice nell’incrocio degli occhi e che affiora, quando affiora, sulle labbra: ´Signore aiutami”. Malato e amici, appoggiando una fragilità all’altra, sostengono la vita.
In ogni paziente è il mondo intero a patire, il malato è l’icona di un’umanità visitata da un cielo e da una terra in pianto, da guardare e da cui essere guardati. La preghiera si fa sguardo.
Guardare che cosa? Guardare Gesù, ´la Parola uscita dal silenzio per essere senso al nostro silenzio; Gesù è il discorso di Dio sul doloreª (G.Bruni). Dinanzi al malato Gesù si commuove, si turba, scoppia in pianto, è preso alle viscere, prova dolore per il dolore dell’uomo afferrato da una mano che strazia e inquieta. Nella sua commozione e nel suo pianto vi sono il pianto e la commozione di Dio: Gesù che piange riassume il pianto dei mondi, nel suo particolare patire si annoda l’universale patire.
Allora la preghiera si risolve in pianto: ´Le mie lacrime nell’otre tuo raccogliª (Sal 56,9). Le raccoglie a una a una, le conserva perché nessuna vada perduta. Ha immensi archivi di lacrime, il Signore, e non di peccati da rinfacciarmi nel giorno del giudizio.
Uno sterminato tesoro di lacrime è misteriosamente custodito in Dio, e l’eloquenza delle lacrime, la loro preghiera durerà per l’eternità. Il mondo è un immenso pianto, perciò è un’immensa preghiera. E un immenso parto: Gesù davanti al malato sta come colui che indica un futuro sottratto al dolore e alla morte.

Gesù Risorto

Il “Cristo” risorto non è il “Gesù” morto in croce. In croce è morto Gesù/uomo, non Cristo/Dio. Il risorto è, per l’appunto, Cristo/Dio. Non sono la stessa persona? Si e no! Il Gesù risorto non è più il Gesù di prima. E’, per l’appunto, un Gesù/risorto cioè glorificato, cioè “spiritualizzato” (che vuol dire “ripieno dello Spirito”), cioè che si trova in un’altra condizione. Questo non significa che non sia reale, perché, fino a prova contraria, non è reale solo ciò che è materiale. E’ reale anche ciò che è immateriale, come i numeri, le idee, i desideri... l’anima, infine!
Dunque essere presenti “in carne e ossa”, non significa essere il Gesù di prima così e semplicemente. Tant’è che dopo la risurrezione appare e scompare, entra a porte chiuse, agisce insomma come mai aveva fatto prima; significa però che è reale tanto quanto quello di prima. Gesù vuole insegnare che la risurrezione non è una riedizione pura e semplice della vita fisica: si tratta di un altro “stato”, di un altro “modo”, di un’altra “realtà”, tangibile, contabile, percepibile, valutabile. Ecco il perché dello “spuntino di pesce”, dell’esortazione a “toccare”: “Sono io, sono vivo”. Questa, dunque è la verità da apprendere.


B.S. Settembre 2009

RAVE PARTY E SPIRITO SANTO

Drogarsi, stordirsi, ubriacarsi di alcol e di musica ad alto volume. Rischiare di morire per scelta consapevole, esaltare la morte quale via di fuga da un mondo “che fa schifo”, come sostengono molti giovani che prendono parte a questo nuovo delirio nichilista chiamato rave party, dove la vita è appesa ad un filo tenue che può spezzarsi in qualsiasi momento.
Sballarsi nei rave party usando anfetamine, droghe ed alcol è prassi normale per molti giovani sbandati. Anzi, se non ti sballi, non sei. In un servizio che i nostri telegiornali hanno dedicato ad un rave party tenutosi in Puglia, si vedevano ragazzi che come zombie si dimenavamo a pochi centimetri da enormi casse acustiche. Non più in sé, erano totalmente preda del demonio della droga, vittime consapevoli dell’alcol, carne da macello, anime predestinate a fine certa.
Uno spettacolo deprimente, la trasposizione in chiave moderna di un girone dantesco, con i dannati costretti a ballare senza sosta. Come l’uomo possa giungere ad un simile degrado è un mistero. Rientra nel mistero del male che serpeggia nelle società e nei nostri cuori. È il mistero della zizzania che contende suolo fertile al grano. Se si riflette sul fatto che il 95% delle banconote americane reca tracce di cocaina, che a Firenze si consuma più droga che a Londra (circa 500.000 dosi in 6 mesi) , che a Roma si contano tra i 25 e i 30 mila consumatori abituali di droga (ma il numero sale di dieci volte tanto se si sommano anche i consumatori occasionali), che a Bari il mercato della droga è in auge, è facile intendere le dimensioni di un fenomeno che fa rabbrividire e rispetto al quale pare si sia inermi.
Soltanto un tuffo rigeneratore nelle acque dello Spirito Santo può restituire forza, dignità e vita ad una umanità che sostituisce al Senso il sesso, che beve birra e si fa di droghe sin da tenera età, assaporando il gusto amaro del male. In filigrana si legge un desiderio inevaso di felicità, di gioia, che solo una ricca interiorità, una spiritualità feconda può soddisfare.
Il punto è: come far comprendere ai giovani che la speranza, l’amore, la gioia si acquistano in Dio e con Dio? Come far comprendere che chi confida in Dio riacquista la forza? Cosa fare in questo contesto segnato dal tormento e dal dolore, in cui, smentendo il detto comune, non la religione è l’oppio dei popoli, ma l’oppio è la nuova religione dei popoli? Non ho una risposta, forse non c’è una risposta facile. Di certo c’è che il disagio nasce nelle famiglie, sottoposte a forti tensioni endogene ed esogene, e dilaga nella società. Se la famiglia è malata, lo è anche la società. Se l’individuo è malato, lo è anche la coppia. Occorrerebbe quindi ripartire dalla persona umana, dalla sua ri-educazione, da un progetto di nuova evangelizzazione che sia nel contempo spirituale e culturale. Certi modelli di vita (rectius, di morte) vengono da idee filosofiche malate, subdolamente penetrate nella mente dell’uomo, in cui l’accento è posto sulla morte o l’inutilità o l’assenza di Dio. Poiché da idee marce non possono che nascere comportamenti marci, i risultati sono sotto gli occhi di tutti: giovani dalle vite spezzate, figli e figlie di uomini e donne che hanno confinato Dio nei perimetri delle chiese o fra i miti e le favole.

Salvatore Bernocco

Prima di dire: “ Ti amo ” … pensaci!

La parola amore viene usata oggi con estrema facilità e non sempre si ha la consapevolezza del suo significato profondo.
Vorrei porvi la riflessione che i vescovi fanno su questo argomento, nella lettera molto interessante, dal titolo: “Ai cercatori di Dio”. In effetti al capitolo secondo intitolato: “amore e fallimenti” viene affrontata questa tematica.
Siamo fatti per amare. L’amore dà la vita e vince la morte: se c’è in me una certezza incrollabile, essa è quella che un mondo che viene abbandonato dall’amore deve sprofondare nella morte, ma che là dove l’amore perdura, dove trionfa su tutto ciò che vorrebbe avvilire, la morte è definitivamente vinta (Gabriel Marcel). Ci fanno paura le persone aride, spente nella voglia di amare e di essere amate.
L’amore invece è irradiante, contagioso, origine prima e sempre nuova della vita. Per amore siamo nati. Per amore viviamo. Essere amati è gioia. Senza amore la vita è triste e vuota.
L’amore è uscita coraggiosa di sé, per andare verso gli altri e accogliere il dono della loro diversità dal nostro io, superando nell’incontro l’incertezza della nostra identità e la solitudine delle nostre sicurezze.
Occorre allora imparare ad amare prima di dire con troppa facilità “ti amo”. Viviamo nel tempo dove si vive la precarietà dell’amore. Dove abbiamo introdotto la logica del consumismo nella nostra vita affettiva. L’usa e getta che trasforma le nostre relazioni in un gioco squallido di puro istinto.
Quella dell’amore, invece, è la storia più personale della nostra esistenza. Riconosciamo i percorsi e proclamiamo gli eventi che la punteggiano. Tante volte però ci troviamo affaticati, stanchi, sollecitati a fermarci al bordo della strada a causa di delusioni e incertezze.
Riconosciamo che nella via dell’amore c’è sempre una provenienza, un’accoglienza e un avvenire.
La provenienza è l’uscire da sé nella generosità del dono, per la sola gioia di amare: l’amore nasce dalla gratuità o non è amore.
L’accoglienza è il riconoscimento grato dell’altro, la gioia e l’umiltà del lasciarsi amare.
L’avvenire è il dono che si fa accoglienza e l’accoglienza che si fa dono, l’essere liberi da sé per essere l’uno con l’altro e nell’altro, in una comunione reciproca e aperta agli altri, che è libertà.
Tutto questo è difficile. Mille ostacoli attraversano il cammino e spesso lo bloccano. Basta uno sguardo al mondo dei rapporti umani, per constatare l’evidenza di tanti fallimenti. E lo dico con un senso di sofferenza, senza mai giudicare nessuno. Amori che finiscono. E’ un’evidenza che appare persino chiassosa ed
inquietante.
Siamo fatti per amare e scopriamo quasi di non esserne capaci. Originati dall’amore, ci sembra tanto spesso di non sapere suscitare amore. Perché? Ce lo chiediamo quando la nostalgia di esperienze di amore, intense e limpide attraversa la nostra esistenza e colora i nostri sogni. Qualcuno, raccogliendo le parole dalla sua esperienza, suggerisce ragioni e prospettive di questa fatica di amare, tutte comunque, da verificare in prima persona. Sono la possessività, l’ingratitudine, e la tentazione di catturare l’altro, le forme che più comunemente paralizzano il cammino dell’amore. Allora l’espressione tanto inflazionata ti amo, si risolve soltanto in un pallido mi amo.
La possessività paralizza l’amore perché impedisce il dono, bloccando il cuore in un
avido e illusorio accumulo di ricchezza per sé.
L’ingratitudine è l’opposto della riconoscenza gioiosa. Impedisce l’accoglienza dell’altro e impoverisce l’anima, perché dove non c’è gratitudine, il dono stesso è perduto.
La cattura è frutto della gelosia, e insieme della paura di perdere l’istante posseduto: in una sorta di sazietà illusoria essa chiude lo sguardo verso gli altri e verso l’avvenire.
Come divenire capaci di amare oltre ogni possessività, ingratitudine e prigione del cuore? Chi ci renderà capaci di amare? Occorre innanzitutto approfondire cosa significa amore.
Poi occorre come ci suggeriscono i vescovi nonostante tanti fallimenti è ancora possibile amare. Ci dicono: abbiamo cercato parole per dire il nostro amore, quello che ci fa nascere, vivere e sperare. Abbiamo dovuto usare parole amare, come delusione, fallimento, tradimento, incertezza, chiusura, egoismo. Non è tutto così per fortuna. Nell’amore si può sempre rinascere.
Sia all’interno della propria realtà di coppia il dialogo si può sempre riprendere.
Sogniamo esperienze nuove perché gli altri, amici vicini o sconosciuti, ci restituiscono fiducia nell’amore e sicurezza nella sua vittoria, nonostante tutto.
Davvero lo scontro tra amore e tradimento mette la nostra esistenza in una condizione di inquietudine, che scopriamo sempre presente e nuova, anche quando ci sembra di averla superata e risolta. Nel silenzio del nostro cuore inquieto troviamo una domanda che avvolge tutto il mistero del nostro esistere e che si proietta in avanti, anche quando sperimentiamo risposte che sembrano soddisfacenti.
Soprattutto deve diventare veramente nostra la risposta che ognuno di noi darà a questa domanda.
Ciascuno è chiamato ad esprimerla nella sua storia personale e a dire a se stesso le sue buone ragioni per amare a partire dal proprio vissuto. La solidarietà che ci lega ci spìnge però a rompere il silenzio per farci ciascuno proposta per gli altri.
Si: c’è in noi un immenso bisogno di amare ed essere amati. Davvero. E’ l’amore che fa esistere (Maurice Blondel). E’ l’amore che vince la morte: amare qualcuno significa dirgli “tu non morirai” (Gabriel Marcel).
Sono delle indicazioni importanti che i vescovi ci offrono per tentare di delineare alcuni passaggi su che cosa significhi amare.
Più dettagliatamente in seguito accentueremo il discorso su come potremmo applicare tutta questa premessa sulla realtà di coppia.
Intanto prima di dire ti amo; pensaci… perché tu non debba troncare tutto quando amare diventa impegnativo e richiede coraggio.

Nel Mese

Per alcuni dei nostri e per il parroco, il mese di luglio si aprì con l’indimenticabile pellegrinaggio in Terra Santa. Seguirono poi le varie fasi per organizzare il campo scuola per le famiglie e l’oratorio estivo per i ragazzi che allietarono con la loro vivacità il circondario della chiesa celebrato il novenario in onore di S.Anna e molte furono le mamme che si portarono ad onorare la Santa. La sera del 26 dopo la solenne celebrazione eucaristica vi fu la benedizione dei bambini cui seguì la festa esterna nella piazza antistante la chiesa.
Il 1° agosto ci portammo poi in pellegrinaggio alla tomba di Don Tonino e dopo il momento di preghiera, visitammo la casa, e la parrocchia ove fu battezzato. Ci recammo poi ad Otranto per visitare la cattedrale e lì salutammo il vescovo don Donato; sulla via del ritorno facemmo sosta a Palmariggi dallo scultore Rocco Zappatore. Diversi poi gli anniversari di Matrimonio celebrati in parrocchia, fra cui quelli di alcuni membri del gruppo famiglia. Celebrammo poi il triduo in onore dell’Assunta e la memoria liturgica di S. Rocco. Demmo poi inizio al campo per la famiglia presso la Villa Jazzo de Cesare: un’esperienza molto bella di fraternità, comunione e solidarietà che vide presenti a volte anche una quarantina di membri anche se non "sulle vette dei monti o al mare”.
Tutto poi fu predisposto perché il 24 agosto ebbero inizio i lavori di pitturazione della chiesa, volendo così rifare il look alla nostra parrocchia e prepararci anche in questo modo alla celebrazione del 40° di sacerdozio del parroco.


Luca






EUCARESTIA: TRIBUNALE SILENZIOSO

Miei Cari,
ho sempre pensato che non poteva esserci altro mese, se non quello di giugno, centrale di tutto l’anno, per porci in atteggiamento di profonda adorazione dinanzi al mistero Eucaristico. Per poter conoscere il Signore, una frase arcana del Vangelo ci invita a percorrere una strada tanto ovvia quanto carica di incognite: “Lo riconobbero nello spezzare il pane”. L’uomo è fortunato se tenta di imboccare questa strada. I discepoli di Emmaus furono fortunati. Nello “spezzare il pane” riconobbero che era Lui e chi era Lui.
Mi chiedo ancora una volta, all’inizio di questo giugno eucaristico se lo “spezzare il pane” non può aprire anche i nostri occhi, infiammare il nostro cuore, proprio come i due fortunati di Emmaus. Penso che il mese eucaristico può diventare una sorta di intenzionale cammino personale verso una meta sconosciuta e attesa, dolce e esigente come tutte le cose belle e vere della vita. E il desiderio è quello di poter camminare con chi ancora spera e sa, nel profondo del suo cuore, che dopo tanti sacrifici ci attende non la mediocrità, ma la pienezza di una relazione con la vita e lo splendore, sempre ricordando che l’età non dona né autorevolezza, né saggezza e tantomeno l’intimità con Dio se non si è venduto tutto, una volta per sempre, per comprare‘“la perla preziosa”.
Bisognerebbe -scrive F. Scalia- vigilare di più dinanzi al mistero Eucaristico, per distinguere i veri tramonti dalle inarrestabili albe di giorni nuovi. Che i tempi nuovi ci costringano a nuovi discernimenti, a lasciare abitudini inveterate, non è catastrofe ma salvezza.
E Don Tonino Bello scriveva: “La città nuova dobbiamo essere noi, pietre viventi di questa costruzione, investiti come non mai della missione planetaria di annunciare la pace al nostro mondo frantumato, e farlo diventare cosmo, cioè bellezza”.
Mentre ci affrettiamo a celebrare la solennità dell’Ottavario del Corpus Domini poniamoci alcuni interrogativi: l’Eucarestia è soltanto Gesù Cristo con noi, il dolce amico depositario delle nostre confidenze, consolatore nei momenti di angoscia? Sarebbe molto riduttivo per la nostra fede e per la nostra vita, sarebbe una “povera” eucaristia, non certo il cibo dei “poveri di Jhwh”. L’Eucarestia è l’estremo tentativo di Dio di rivelarci chi è Lui; è appello silenzioso rivolto a discepoli appassionati, affinché trasformino la società in corpo di Cristo.
Se lo accogliamo, anche i nostri occhi si apriranno “allo spezzare del pane”, i nostri cuori si infiammarono e “ritorneremo in comunità”, come i due di Emmaus. Si rafforzi, miei Cari, in noi la convinzione di dover diventare uomini e donne di eucarestia, che sanno di poter incidere sul futuro della storia, che dalla decisione di spezzare il proprio corpo e offrirlo come pane revocato all’umanità dipende anche se la storia sarà il volto del Dio della tenerezza -rivelato da Gesù nell’Eucarestia- oppure il Dio mercato che accumula ingiustizie e soprusi ai danni degli ultimi della terra.
L’Eucarestia è tribunale silenzioso e proposta di vita per il nostro tempo.
Ricordiamo infine che l’adorazione eucaristica, nel senso di pia devozione, dovrebbe esulare dai nostri intenti.
Sarebbe riduttivo vedere l’adorazione eucaristica in quest’ottica di devozionismo popolare. Dev’essere invece vissuta come celebrazione e appello di un Amore incontenibile che scende tra noi nel Cristo per infrangere ogni resistenza umana e sommergere ogni male del mondo.
Viviamo così questo mese di giugno.

Cordialmente, Don Vincenzo

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21 giugno: Memoria di S. Luigi Gonzaga
La Comunità del SS. Redentore
presenta cordiali auguri onomastici al vescovo don Gino,
assicurando preghiera,vicinanza,
costante sintonia con il suo Progetto Pastorale.

Quel 3 Giugno 1963...

Il Papa della bontà e del dialogo

Papa Giovanni XXIII, nato Angelo Giuseppe Roncalli (Sotto il Monte, 25 novembre 1881 – Città del Vaticano, 3 giugno 1963), è stato il 261º Vescovo di Roma e il 260° successore di Pietro, eletto il 28 ottobre 1958. Fu terziario francescano ed è stato beatificato da papa Giovanni Paolo II il 3 settembre 2000.
A 46 anni dalla scomparsa, ci piace sottolineare una caratteristica di Giovanni XXIII, la sua schietta capacità di entrare in sintonia con il mondo, la sua attitudine al dialogo e all’apertura (volle il Concilio Vaticano II). Prima ancora di salire al Soglio di Pietro, durante il periodo in cui era Patriarca di Venezia, compì gesti distensivi nei riguardi dei “lontani”. Fra i tanti va ricordato il messaggio che inviò al Congresso del PSI, partito ancora alleato del PCI i cui dirigenti e propagandisti erano stati scomunicati da papa Pio XII nel 1949, quando nel 1956 i socialisti si riunirono a Venezia. Tuttavia, nessuna discontinuità con le posizioni storiche della Chiesa. Jean Guitton, l’ultimo grande umanista francese scomparso nel 1999, molto stimato da Paolo VI che lo volle quale osservatore laico al Concilio Vaticano II, ricordava, in un articolo del 2 gennaio 1957, che Angelo Roncalli individuava le “cinque piaghe d’oggi del Crocifisso” nell’imperialismo, nel marxismo, nella democrazia progressista, nella massoneria e nel laicismo. Il 26 dicembre 1958 visitò i carcerati nella prigione romana di Regina Coeli, dicendo loro: “Non potete venire da me, così io vengo da voi...Dunque eccomi qua, sono venuto, m’avete visto; io ho fissato i miei occhi nei vostri, ho messo il cuor mio vicino al vostro cuore...la prima lettera che scriverete a casa deve portare la notizia che il papa è stato da voi e si impegna a pregare per i vostri familiari”. È rimasta memorabile la carezza del Papa a quel recluso che, disperato, inaspettatamente gli si buttò ai piedi domandandogli se “le parole di speranza che lei ha pronunciato valgono anche per me”.
Per la sua bonomia ed il tratto profondamente umano, è ricordato con l’appellativo di “Papa buono”. Questa definizione, tuttavia, rende un’idea parziale della sua persona e del suo pontificato. Ha detto l’Arcivescovo Loris Capovilla, ospite della nostra Comunità parrocchiale nel 1988, che ne fu il segretario particolare e ne è considerato la memoria vivente: “Dal tono con cui viene sempre ripetuta, risulta che chi la usa lo sottovaluta, lo misconosce. E in effetti è rimasto un Papa sconosciuto, che nell’immaginario collettivo è rimasto quasi solo per quella frase “Andate a casa, fate una carezza ai vostri bambini e ditegli che è la carezza del Papa”. Frase totalmente spontanea, non prevista, ma che non deve indurci a dimenticare che egli fu anche un grande diplomatico, un grande politico, che anche negli anni in cui fu Nunzio apostolico a Parigi e in Turchia, dimostrò di avere una mente eccezionale e un cuore misericordioso”.
C’è di più: data l’età, colui che avrebbe dovuto essere un pontefice di transizione si rivelò invece un pontefice per molti aspetti "rivoluzionario".

Salvatore Bernocco

Le valigie, il tempo… e la vita


Proprio questa mattina, dopo tre giorni di permanenza, è partito dal Centro Nazareth un simpatico gruppo parrocchiale.
Mi ha colpito una cosa… banale: il traffico vorticoso delle valigie.
Puntuali, allegri, uniti, questi nostri amici erano arrivati tutti stanchi e trafelati con le loro valigie e bagagli, sistemandosi nelle camere loro assegnate.
E questa mattina, all’ora stabilita, la partenza. Ognuno è sceso dalle camere con le proprie valigie, grosse e piccole.
Saluti, abbracci…
Ma quelle valigie in arrivo frettoloso, ed in partenza
veloce, direi quasi precipitosa, mi fecero una certa impressione.

* * *

Pensavo: così è la vita.
È un camminare svelto. Ognuno con le proprie valigie: poche o molte.
E non ci si può fermare.
E mi veniva in mente una bella frase, sentita da un caro amico, e che deve essere di non solo quale scrittore; “La vita può essere anche un comodo quarto posto nello scompartimento di un vagone di prima o di seconda classe… Ma ad un certo punto bisogna scendere”. BISOGNA SCENDERE!
Guardando quei cari amici in partenza… mi veniva da riflettere: comunque, ad un certo punto, bisognerà veramente, definitivamente scendere.
E… queste valigie, non avranno allora più senso.
Bisognerà aver preparato e tener pronte ben altre valigie!

* * *

Valigie… e tempo.
Il tempo, la cui natura è passare, morire.
E che è pure la cosa più preziosa della nostra vita, fatta di tempo.
Ed è per questo che essa col tempo vola, …si spegne,muore.
Ed è appunto il tempo che farà un giorno giustizia di tutte le valigie.
Bisognerà deporle tutte: quelle leggere e quelle pesanti; le poche e le molte, e le troppe.
Non si potrà portare oltre il morire del tempo né oro né argento, né preziosi.
E se le cose stanno così, non sarà forse il caso di vedere se nella vita, anche noi ci trasciniamo dietro troppe valigie, troppo ingombranti, inutili? Mentre “…bastano poche cose, o, anzi una cosa sola”?
(cfr. Lc 10,42).

* * *

Il tempo e l’eternità.
Sia benedetto il Padre nostro che è nei Cieli, che ci ha posti nel tempo, che corre, passa, e muore, proprio perché noi, dopo questa vita effimera, giungessimo a partecipare della stessa sua vita che è Eternità di amore e di gioia.
Il tempo scorre misterioso, sì che la nostra vita si muove correndo veloce come su una puntina: l’“adesso”, per giungere al suo tramonto.
In quel punto preciso dove gli uomini gridano “morte!” e “fine!”; per l’infinita bontà del Padre, per la morte di Gesù Dio fatto uomo, comincerà per noi la vera Vita.
L’effimera vita nel tempo è proprio perché mettiamo, non in una valigia, ma nella nostra anima, il “tesoro nascosto” di cui parla Gesù.
Questo tesoro è l’Amore: la Vita divina a noi comunicata tramite la morte di Gesù.
Questo germe divino, diventato anima della nostra anima, anima di ogni nostra azione, deve svilupparsi proprio nella effimera vita che scorre nel tempo.

* * *

Aguzzare dunque gli occhi per forare le cose. Oltrepassarle. Forare il tempo. Pregustare la gioia dell’eternità.
…Beni e gioie di quaggiù; dolori e croci, ritroveranno così il loro giusto posto, la proporzione esatta: mezzi, solo mezzi, e gradini da mettere sotto i piedi per ascendere sempre più in alto nella nostra statura di figli di Dio, camminando nel tempo, FATTI PER L’ETERNITÀ.


d.P.

AL VOTO: MA NE VALE LA PENA?

Mancano pochi giorni alla tornata elettorale di giugno. Voteremo per il rinnovo del Consiglio provinciale di Bari ed il Parlamento europeo. Sull’importanza dell’Europarlamento non spenderò parola.
Qualche riflessione invece va fatta a proposito della Provincia di Bari, la cui utilità è fortemente discussa (non solo di quella barese, ovviamente, ma di tutte le 109 province italiane). A cosa servono le Province? I più maliziosi rispondono che servono per sistemare personale politico, visto che, nella maggior parte dei casi, non si sa bene che cosa facciano, quali siano le loro funzioni, quali risultati conseguano per il progresso delle comunità locali. E che dire dei Consiglieri provinciali? C’è modo di monitorarne l’attività, il numero delle volte che hanno partecipato alle sedute del Consiglio? Quali interventi hanno intrapreso per “dirottare” finanziamenti ed utilità verso le città della Provincia? C’è modo di sapere se si sono impegnati, se sono stati assidui o se si sono limitati a scaldare le sedie del Consiglio e delle Commissioni per lucrare il gettone di presenza? Quali vantaggi ha ottenuto Ruvo dalla Provincia di Bari?
La nota dolente è sempre la solita: nell’arco di tempo fra una elezione e la successiva, un silenzio tombale cade sulla Provincia. Diviene evanescente. Si trasforma in qualcosa di impalpabile e lontano, una sorta di puntino all’orizzonte delle vicende umane e locali, politiche ed amministrative.
Di tanto in tanto dà segnali di vita, poi il diagramma ridiventa piatto. Di quanto vi accade si apprendono pochi particolari, ed il rapporto fra l’eletto e l’elettore, vezzeggiato un mese prima del voto, si fa incostante e tenue fino a scomparire. Se ne riparlerà decorsi i canonici cinque anni di volatilità, con le dovute poche eccezioni. Si parlava – e si parla – di abolirle, ma nel frattempo, tanto per rimanere dalle nostre parti, se ne istituisce una nuova, la BAT, la sesta in Puglia, con corteo di uffici periferici dello Stato ed un dispendio di denaro pubblico che, forse, meriterebbe altra destinazione e sorte.
Ma, fatta questa premessa, votare non è inutile. È l’unico modo che abbiamo per far conoscere la nostra opinione a chi muove i fili della politica, per punire o premiare. E, eventualmente, per cambiare squadra, qualora si ritenga che quella precedente abbia fatto acqua e sprigionato solo tanto fumo. O prodotto molta paglia, che, se fa maturare le nespole, in politica è sinonimo di niente.

S.B.

Nel Mese

Con tanta gioia demmo inizio al mese di maggio sia per onorare la Madonna, sia per gli appuntamenti con i sacramenti della Riconciliazione e della Cresima cui si sono accostati i fanciulli di 3^ elementare e quelli di 2^ media. Gli incontri di spiritualità infatti si sono tenuti per i primi al Santuario della Madonna degli Angeli in Cassano Murge e presso quello della Madonna dei Martiri in Molfetta per i secondi. Il parroco, catechisti e i genitori hanno accompagnato i ragazzi che hanno vissuto momenti bellissimi di spiritualità e convivialità. Molta è stata poi la partecipazione ai riti, in particolar modo il 24 maggio in cui il vescovo don Gino è tornato in parrocchia per la cresima.
La catechesi per i genitori e per i vari gruppi è stata regolarmente fatta così pure per il Gruppo famiglia che si sta molto impegnando in ordine alla catechesi e all’attuazione delle indicazioni date dal vescovo in seguito alla sua Visita Pastorale. E proprio in vista della loro attuazione si è riunito il Consiglio Pastorale parrocchiale, decidendo tra l’altro che la sera del 19 giugno ci sarà un incontro di preghiera, di ascolto della Parola e di convivialità tra i vari gruppi, associazioni e movimenti esistenti in parrocchia.
Come ogni anno si è vista la partecipazione notevole dei fedeli della città per la festa di S. Rita per la benedizione delle rose e il bacio della Reliquia della santa venerata nella nostra chiesa parrocchiale. Non è mancata anche per questa circostanza una adeguata catechesi del nostro parroco.
Il mese si è concluso con la solennità della Pentecoste, La Veglia Mariana tenutasi in Via Pio XII e la processione della Madonna. Fervono intanto i preparativi per il campo scuola che si terrà a Lago Laceno.


Luca



Si sono accostati per la prima volta al sacramento della Riconciliazione:
Cecilia Abbatangelo, Vincenzo Bellarte, Francesca De Astis, Nico Di Modugno, Paolo Di Modugno, Gianvito Di Rella, Camilla Lobascio, Nicole Lovino, Antonio Montaruli, Vincenzo Ribatti, Rosemary Rubini, Lorenzo Sorice, Vincenzo Tota.




Cresimati (24 maggio): Martina Campanale, Elena Sofia Catalano, Maria Chiapperini, Francesco Contursi, Biagia De Silvio, Giambattista De Simine, Gioacchino De Simine, Marika Di Domenico, Gabriele Doria, Biagio Ferrieri, Brigida Fioretti, Francesco Gattulli, Benedetta Iolanda Mansueto, Tommaso Nasti, Dario Paparella, Alessandro Rutigliani, Michele Sorice, Marika Sparapano, Giovanni Squeo, Domenico Stragapede, Francesca Stragapede, Annalisa Tarricone, Salvatore Elia Tedone, Antonio Torquato, Roberto Volpe.



31 Maggio 2009: processione conclusiva del mese Mariano

Maggio a Maria; MARIA, LA FANTASIA DI DIO



Miei Cari,
ancora una volta non riesco a sottrarmi dal condividere alcune riflessioni che un Amico biblista, dei Servi di Maria, ripropone all’attenzione di quanti vanno alla ricerca e alla riscoperta della Sacra Scrittura, richiamo ultimo dello Spirito, attraverso il recente Sinodo dei vescovi.
Il mese di maggio, da sempre dedicato alla Madonna, il sigillo dell’ottimismo di Dio, non può non farci tornare alla scuola di Lei, Discepola del Figlio, e ora, nostra Maestra. L’inizio e la fine della vita terrena di Maria, pur non avendo riscontro nei Vangeli, corrispondono al progetto che Dio ha sull’umanità. Creati a immagine e somiglianza di Dio e chiamati a diventare suoi figli, noi realizziamo questa somiglianza nella vita terrena mediante la pratica di un amore che somiglia a quello del Padre, e proseguiamo verso il Signore la nostra esistenza oltrepassando la soglia della morte.
La Chiesa, presentando Maria come modello perfetto di questo itinerario di figliolanza e di somiglianza, ne celebra l’ingresso nell’esistenza terrena con l’Immacolata e quello della sfera di Dio con l’Assunta. “Queste verità, che pur non avendo alcun riferimento nel Nuovo Testamento appartengono al patrimonio di fede del popolo cristiano, sono nate dall’intuito della gente più che dalla speculazione teologica”. Il processo di crescita nella fede, vissuto da Maria l’ha portata alla piena comunione con Dio che ha colmato con l’Immacolata l’abisso che separava l’uomo da Lui.
L’itinerario di fede di Maria si può racchiudere nell’arco di due grandi cicli: le annunciazioni.
Ogni annunciazione è una chiamata da parte di Dio alla pienezza di vita, e nell’esistenza di Maria si incontrano due importanti chiamate: nella prima Dio si rivolge alla ragazza di Nazareth, nella seconda Gesù, il “Dio con noi”, interpella sua madre. La prima annunciazione culminerà nella nascita dell’Uomo-Dio, la seconda in quella della discepola perfetta.
Anche le nostre esistenze sono attraversate dalle “annunciazioni” perché possiamo generare il Cristo nella nostra vita e perché diventiamo suoi discepoli.
Nel mese di maggio ci porremo alla scuola di Maria non tanto per isolarcela da noi con canti e preghiere, quanto per metterci in ascolto di Lei perché non è facile sentirci dire: “Fate quanto Gesù vi dirà”, e per farci meglio comprendere quanto Egli chiede da noi. Lei ci orienterà verso scelte di vita, dal momento che si è fidata della fantasia di quel Dio che trasforma tutte le cose in bene e che sceglie quel che nel mondo è disprezzato per farne oggetto del suo amore e fa sì che un’anonima ragazza di uno sperduto villaggio venga “proclamata beata da tutte le generazioni”.
Ritorniamo alla scuola di Maria.

Cordialmente,
Don Vincenzo



Domenica 24 maggio
Il nostro vescovo
DON GINO
sarà tra noi per amministrare
la SANTA CRESIMA

LA ROTONDA DI PIAZZA CASTELLO

È sotto gli occhi di tutti i ruvesi lo stato di degrado in cui versa, ormai da tempo, Piazza Castello, su cui si affacciano la chiesa del SS. Redentore, Palazzo Melodia, la chiesa di S. Rocco e finanche la sede della Civica Amministrazione, Palazzo Avitaja.
In più di una occasione abbiamo segnalato a chi ha il dovere di amministrare la città la necessità di intervenire per il rifacimento di una piazza che, oltre a stare a cuore ai ruvesi, rappresenta il nostro biglietto da visita, insieme allo stato del verde pubblico, del manto stradale ed alla pulizia dei luoghi, condizione, quest’ultima, che dipende per larga parte dal senso civico dei cittadini.
Per il recupero di Piazza Castello, spesso oasi per cani randagi o tela da imbrattare o foglio su cui scrivere, l’impegno non può invece che essere profuso dall’Amministrazione Comunale che, sino ad oggi, ha realizzato interventi tampone, mentre sarebbe necessario restituirle la stessa dignità che altre amministrazioni locali viciniori hanno restituito alle loro piazze. Che Ruvo stia attraversando una fase critica della sua storia civile e politica non è una novità. Non è colpa soltanto della politica o degli amministratori, beninteso, ma anche della collettività ruvese, specie se si riflette sulla lontananza della cosiddetta “società civile” dall’agone politico, per motivazioni talora giuste o giustificabili, talaltra pretestuose.
C’è bisogno di un riscatto, di imprimere una sterzata all’andazzo. È responsabilità generale ed individuale, certo, ma in primis della classe politica e di chi è stato chiamato ad amministrare il paese. Il recupero di Piazza Castello, come anche la restituzione alla città della Piscina comunale, sarebbero segnali di una svolta, della volontà di imboccare un percorso virtuoso, all’insegna delle cose concrete.


Filoteo

La carità è il volto e il tocco di Dio

Dio si serve del nostro volto per mostrarsi. A noi, che siamo sua immagine, ha affidato il compito di renderlo visibile per le strade del mondo. Il Papa nella sua prima enciclica Deus Caritas est afferma - riportando una frase di sant’Agostino - “ che chi vede la carità, vive la Trinità”. Come a dire che la carità non è altro che la concretezza visibile dell’Amore di Dio; anzi, dell’Amore che è Dio.
Vivendo nella carità si vede Dio: Dio è carità.
Benedetto XVI parla di “occhi del cuore”, di un “cuore che vede”. Il cuore ha una sua vista; e la capacità visiva di un cuore è determinata dal suo essere ricolmo di amore. Più un cuore ama, Più vede; più il cuore umano assomiglia al cuore divino, più è in grado di aprirsi agli altri per vedere le mille povertà che stanno attorno. Oltre agli occhi, la carità investe il tatto.
Gesù ha toccato le miserie umane nella vita terrena. Le ha trasformate in vita. Il tatto di Dio trasforma sempre ciò che tocca: il lebbroso toccato è risanato, il morto è risuscitato, il cieco comincia a vedere e il sordo ad udire. Tocca e si lascia toccare. Il risultato è lo stesso: l’emorroissa dopo aver toccato la veste di Gesù, si ritrova guarita. Ma prima ancora, Gesù ha toccato la nostra natura umana, rivestendosi della nostra carne. Chi vede e pratica la carità, non solo vede Dio, ma lo rende tangibile: le mani immerse nella carità offrono il tatto di Dio; le mani della carità sono le stesse mani di Dio, mani divine che si servono delle mani umane.