29 Giugno: Festa del Papa

Benedetto XVI
In sette anni ha compiuto 23 viaggi internazionali, 27 in Italia, ha scritto tre encicliche, ha indetto un anno della fede, istituito un Pontificio Consiglio per la nuova evangelizzazione e si appresta a celebrare i 50 anni dal Concilio Vaticano II. Insomma, un Papa forse non in perfetta forma fisica ma pronto ancora a impegnarsi come un “contadino nella vigna del Signore”.
VIVAS - FLOREAS - GAUDEAS


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21 Giugno: Memoria di S. Luigi Gonzaga
al nostro Vescovo don Gino il filiale augurio e un pensiero orante nel giorno nel suo onomastico dalla comunità del SS. Redentore.

IL SIGNORE MANDA I SUOI ANGELI SUL NOSTRO CAMMINO

Miei Cari,
nel grigiore e nelle tristezze della vita, tra gli incidenti di percorso e le illusioni o abbagli di trovarti con persone sincere e che si rivelano poi confuse e tutt’altro che solari ma politicanti, la bontà del Signore ti fa incontrare ponendoli sulla tua strada degli uomini veri; figure di valore che tra la “ripetizione della dottrina e la compassione, hanno preferito quest’ultima”. Mi riferisco a P. Ernesto Balducci, incontrato per diversi giorni a Firenze alcuni anni prima della sua scomparsa. Lui, un gigante per la cultura, la fede e il servizio (era lui che al mattino si imponeva di servirci la colazione). E con lui P. David Turoldo presentatomi da Don Tonino nell’atrio dell’episcopio di Molfetta e che mi aveva precedentemente scioccato e edificato con la lettura del suo libro: “Il dramma è Dio”. La sua figura imponente e le sue parole di eccezionale penetrazione “Non sapete che un pò di lievito fà fermentare tutta la pasta? (1 Cor., 6) lasciavano trasparire la trascendenza e il vero uomo di Dio. Che dire poi di Don Tonino? Con la sua lapidaria affermazione “Chi non vive per servire, non serve per vivere” e tutto il suo ministero di vescovo ritmato dello spirito del servizio e dalla compassione. Ma non basta. E la povertà, la fiamma nel cuore e l’anelito di una Chiesa che sia veramente tale che fuoriesce da ogni poro di P. Ortenzio da Spinetoli più volte incontrato in una modesta casa condivisa a Recanati con una famiglia di poveri custodi del cimitero recanatense? Lo avevo ammirato, approfondito e studiato in quel suo volume, libro di testo durante gli studi di teologia negli anni ’60 “I Vangeli dell’infanzia”. E per concludere in grazia: la solare e amabile, fraterna persona del frate dei Servi di Maria, Alberto Maggi che tanto bene fa parlando con semplicità del Vangelo di Gesù e che attraversa dal nord al sud l’Italia. Segnato purtroppo da qualche mese dalla sofferenza per una disseccazione dell’aorta mentre continua ad affermare che tale esperienza gli conferma che “quando si vive per gli altri, al momento del bisogno si riceve cento volte di più” o che “è la Chiesa che deve convertirsi al Vangelo, non il contrario”. Ma ciò che mi ha fatto riflettere è un affermazione di fede che non ho mai ascoltato da altri (che anzi!: chiamato al capezzale di una morente che sollecitavo al perdono del suo coniuge, costei si rifiutava ribadendo un deciso «no»). Ebbene, quando uno si trova in grave pericolo di vita, si è soliti invocare o rivolgere preghiere a questo o quell’altro santo, facciamo celebrare messe. A me, che assicuravo a questo umile frate il mio conforto nella preghiera, mi son sentito dire che non ce ne sarebbe stato bisogno perché “la scelta del Signore sarà la migliore”. Una fede disarmante. Avremmo dato anche noi questa risposta? Grazie, P. Alberto per questa lezione fondamentale: fede e compassione. Miei Cari, il Signore non ci abbandona, anche nei tristi momenti che stanno attraversando i fratelli dell’Emilia- Romagna e sempre confortandoci con angeli che pone sul nostro cammino come P. Alberto, infermo che ti scuote con le sue affermazioni di fede: “La scelta Sua sarà la migliore”. Avvenga così anche per ciascuno di noi.
Cordialmente,
Don Vincenzo

LA MAMMA: ANCHE IL NONNO LA INVOCA

Dicono che, sul punto di morire, dalla nostra mente scompaiono tutti: i figli, il marito, il padre, gli amici, i soldi... In quell’ultimo istante, raccogliendo le forze rimaste, il cervello mette a fuoco soltanto lei: la mamma. Non so se tutto questo sia vero. So però di aver assistito alla morte di un vecchio, reso duro dalla vita, carico di rughe e di fatica che, morendo sussurrò: “mamma”. D’altronde, quando avvertiamo un pericolo improvviso, l’istinto ci fa gridare: “mamma mia!”. Hai mai visto la pubblicità? Madri che sono in attesa con il loro commovente pancione, madri che puliscono sederini, che spalmano cioccolata e formaggini, che scelgono prodotti genuini, che comperano carte igieniche morbide e tonni teneri che si spezzano con un grissino, che lavano con gioia le magliette zozzissime del marito, che stendono al sole lenzuola più bianche di quelle della vicina, che strofinano pavimenti fino a potersi specchiare, che seguono con occhi lucidi i figli che si sposano, che controllano se le nuore sanno cucinare la carne in scatola. Anche i cantanti, quando vogliono andare a colpo sicuro, compongono canzoni sulla mamma. Mi sono sempre chiesto se Edmondo De Amicis, lo scrittore del libro Cuore, conoscesse Maria di Nazareth. Di certo il volto della sua mamma lo conosceva. E, allora, conosceva anche il volto di Maria perché nel volto di ogni donna c’è un frammento di bellezza. “Non sempre il tempo la beltà cancella o la sfioran le lacrime e gli affanni: mia madre ha sessant’anni, e più la guardo e più mi sembra bella. Non ha un accenno, un guardo, un riso, un atto che non mi tocchi dolcemente il core; ah, se fossi pittore, farei tutta la vita il suo ritratto! Vorrei ritrarla quando china il viso perch’io le baci la sua treccia bianca, o quando, inferma e stanca, nasconde il suo dolor sotto un sorriso. Pur, se fosse il mio priego in ciel accolto, non chiederei di Raffael da Urbino il pennello divino per coronar di gloria il suo bel volto; vorrei poter cangiar vita con vita, darle tutto il vigor degli anni miei, veder me vecchio, e lei dal sacrificio mio ringiovanita”. (E. De Amicis, Se fossi un pittore) Poi guardi Maria, la mamma per eccellenza, e non sai fermare sulle labbra una domanda “da bambino”: “Maria, da uno a dieci: ma quanto bella sei?”

N.N,

HI AND BYE (toccata e fuga)

Premetterei un asserto non dogmatico: il nostro carattere non è il nostro peccato. Molte volte facciamo confusione fra carattere e peccato. Una reazione caratteriale automatica, frutto di stratificazioni e di abitudini spesso apprese passivamente, non designa un peccato in senso religioso, ma una mancanza di consapevolezza e di coscienza di sé. Finanche un atto di violenza compiuto senza consapevolezza non è peccato, per cui potrei affermare che vi è peccato se vi è consapevolezza, che vi è più senso del peccato quanto più siamo capaci di percepirci, di sentirci, di ascoltarci, di porre in essere comportamenti non automatici. Il Cristo sulla croce, prima di spirare (non di morire), dice (il verbo è al presente perché lo dice anche adesso, in questo preciso istante):‘“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Colui che non sa quello che fa non può essere condannato, ma compatito e perdonato. Quanto sia corta la corda della libertà dell’uomo è cosa ben nota. Vorremmo ma non possiamo. Potremmo ma non ce la sentiamo. C’è qualcosa che si frappone fra il pensato, il voluto e l’agito. Perché non vogliamo veramente, non pensiamo profonda-mente. A livelli profondi, lì dove si situa la faglia di scissione, le ferite sanguinano, l’inconscio detta i suoi ritmi, deborda e ha ragione di noi. Non facciamo ciò che vorremmo. Scrive san Paolo ai Romani: “Ma io sono un essere debole, schiavo del peccato. Difatti non riesco nemmeno a capire quel che faccio: non faccio quel che voglio, ma quel che odio. Però se faccio quel che non voglio, riconosco che la Legge è buona. Allora non sono più io che agisco, è invece il peccato che abita in me. So infatti che in me, in quanto uomo peccatore, non abita il bene. In me c’è il desiderio del bene, ma non c’è la capacità di compierlo. Infatti io non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio. Ora, se faccio quel che non voglio, non sono più io ad agire, ma il peccato che è in me. Io scopro allora questa contraddizione: ogni volta che voglio fare il bene, trovo in me soltanto la capacità di fare il male. Nel mio intimo io sono d’accordo con la legge di Dio, ma vedo in me un’altra Legge: quella che contrasta fortemente la Legge che la mia mente approva, e che mi rende schiavo della legge del peccato che abita in me. Eccomi dunque, con la mente, pronto a servire la legge di Dio, mentre, di fatto, servo la legge del peccato. Me infelice! La mia condizione di uomo peccatore mi trascina verso la morte (…)”. Paolo è tuttavia consapevole di questa scissione che lo trascinerebbe verso il baratro della morte se non intervenisse la potenza del Signore, il Simbolo, Colui che unisce ciò che è diviso. Di quale morte parla Paolo? Di quella biologica? Certo che no. Qui si parla della seconda morte, di quella dell’anima, della definitiva presa di distanza dal Logos, per volontà soggettiva, quindi per atto libero e consapevole. Affinché un peccato sia mortale si richiede che concorrano alcune condizioni: «È peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso», si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Piena consapevolezza e deliberato consenso implicano che possano esserci ignoranza ed inconsapevolezza. Di qui la necessità di acquisire sensibilità quanto al peccato grave attraverso la conoscenza di sé e dei propri meccanismi alienati. È inevitabile che se non si possiede un principio unificante, ogni azione è un aborto di bene, è costruzione peritura, è de-finalizzata, consegue risultati incerti, inconsistenti, volatili. Questa incertezza si riverbera sempre sul mondo relazionale, così che ogni relazione non si espande ma divampa in un falò di paglia. Tutte le relazioni sono a rischio di strumentalizzazione, di rottura e di consumazione. È l’epoca dell’hi and bye. Ti incontro per consumarti, per vampirizzarti, per portarti a letto, dopo di che “whatever we had, we had” (ciò che è stato è stato). Le morti per ecstasy, alcol e droghe di tantissimi giovani rivengono dal non aver accolto l’etica del Volto, dall’appassimento della speranza, che sempre concerne il futuro, per aderire ad uno squallido presente senza orizzonti. Generazioni senza futuro. Generazioni per le quali il tempo non ha senso, non ha niente a che fare con l’anima. Generazioni di precari in ogni senso. La relazione desertificante intercorre fra individui, non fra persone, laddove l’individuo si differenzia dalla persona perché l’accento è posto sull’ego e non sull’io sano e sul noi comunitario. L’individuo è isolato nello spazio dei suoi interessi materiali. Non vi è alterità se non per il tempo strettamente necessario a raggiungere i propri obiettivi. Alterità immiserita e violentata. La persona invece parte da sé per andare oltre se stesso, per superarsi nell’atto di amore verso di sé e verso l’altro. I suoi spazi sono abitati dallo spirito che vivifica la materia. Senza questa potenza vivificante, l’uomo è destinato a restare individuo e a non conoscere la bellezza di sé e del mondo. Gli altri non assurgeranno mai al rango di prossimo ma di altro da sé, di avversario, di nemico, di marionetta. L’individualismo è guerra continua, dentro di sé, nelle famiglie, nei condomini, nei luoghi di lavoro, nelle parrocchie, nei partiti. Il principio unificante ha sempre natura divina o escatologica. Nessun sistema filosofico, nessuno sforzo di sola ragione, nessuna concezione politica ha elaborato un principio unificante universalmente valido. Dio è il Logos. Dio è la Parola che salva, non la parola che turlupina, imbroglia, mistifica. Egli è il principio unificante, per cui il peccato che non sarà perdonato, quello contro lo Spirito, ritengo sia l’atto o l’azione derivante dalla piena consapevolezza che Dio è il Logos, ma senza che a questa consapevolezza ci si conformi con umiltà e sapienza. So ma non faccio. Sono consapevole che Dio è mio Padre, ma Egli va ucciso, altrimenti la mia libertà sarà sempre condizionata, la mia parola sarà sempre influenzata, io dovrò fare i conti con me stesso fino in fondo, fino al punto di scendere nel mio personale inferno per battermi con l’Anticristo, il cui campo di battaglia è il cuore dell’uomo, inteso come coscienza, mente, conscio. Elogio della libertà assoluta che si converte tragicamente in follia e, liberamente, in lontananza da Dio.

Salvatore Bernocco

L’ASD “SAN ROCCO” SI PREPARA PER I PLAY-OFF NAZIONALI !

L’ora dei play-off nazionali di C1 sta per scoccare. A rappresentare la Puglia con onore ci sarà l’Asd San Rocco Ruvo che da sabato 19 maggio sarà impegnata nel triangolare con Molise e Basilicata. Si parte dalla sfida interna del Palasport di Via C. Colombo con il Real Maratea. Sfida insidiosa per gli uomini di mister Tedone, decisi, però, a giocarsi fino in fondo le chances a disposizione per completare al meglio una stagione fin qui esaltante. La vittoria nella finale play-off con il Futsal Barletta di due settimane fa potrebbe aver già spalancato di fatto le porte della serie B alla squadra ruvese tra le più accreditate a beneficiare di un eventuale ripescaggio. Ma Mazzone e compagni vogliono sul campo dimostrare di meritare la serie B, conquistandola a suon di gol. “Fino a questo momento – dice mister Rocco Tedone – siamo andati al di là di ogni rosea previsione. Qualche errore nostro ci ha penalizzato, togliendoci la possibilità di giocarci fino all’ultima giornata di campionato la possibilità di vincere il nostro raggruppamento di C1. Ma ai play-off ci siamo riscattati, mettendo sul piatto le nostre qualità migliori: cuore, grinta e determinazione. Sono molto soddisfatto di come i più giovani siano riusciti a mettersi in mostra sin qui, sia con la prima squadra che con l’U21”. Asd San Rocco Ruvo che per tutto l’anno ha dovuto viaggiare su due binari paralleli, C1 e U21, con quest’ultima esperienza conclusasi contro lo Scafati ai quarti di finale, con la sconfitta maturata nel corso del secondo tempo supplementare: “Occorre fare un elogio allo staff tecnico guidato da mister De Venuto che con parsimonia ha saputo condurre una cavalcata entusiasmante. Anche con l’U21 siamo stati in corso sino agli ultimi minuti supplementari contro lo Scafati, la cui squadra maggiore milita in A2, e tutto ciò grazie al nostro inconfondibile entusiasmo”. Mister Tedone si sofferma sulla sfida interna con il Real Maratea e sul futuro: “Ci auguriamo di poter continuare a onorare questa maglia fino in fondo, sapendo che nulla ci è precluso se continuiamo a dannarci l’anima e a correre su tutti i palloni. Sul futuro ci penseremo appena sarà conclusa quest’avventura. Vogliamo programmare il nostro domani con parsimonia e attenzione massima, dando solidità al nostro progetto. Tutti noi sappiamo che dobbiamo sempre onorare i sacrifici che tutti noi, dal primo all’ultimo componente della società, compiamo giorno dopo giorno”.

Nel tempo e nello spazio di Dio

Con grande entusiasmo demmo inizio al mese mariano che registrò la presenza dei tanti devoti di S. Rita che festeggiammo dopo aver celebrato il solenne novenario con la benedizione e la distribuzione delle rose. Intanto si intensificò la preparazione dei fanciulli che si accostarono al sacramento della riconciliazione e quella dei ragazzi di seconda media che ricevettero la Cresima. Fu infatti il vescovo Don Gino ad amministrarla il sabato 19 maggio. Il gruppo famiglia animò ogni sera il rosario anche per le persone che non potettero ogni sera partecipare all’Eucarestia. Il giorno nove il parroco celebrò durante la novena al Santuario della Madonna delle Grazie. Anche i bambini di prima Confessione fecero il ritiro spirituale presso il Santuario di Calentano. Gli incontri periodici di formazione dei vari gruppi si tennero regolarmente e il 31 maggio – come ogni anno- si portò processionalmente la Madonna da Via Pio XII per la veglia mariana e l’affidamento della Comunità alla Vergine. A conclusione c’è stata poi la riunione del Consiglio Pastorale Parrocchiale.

Luca