Per meglio ripartire...

Miei Cari,

mentre si sta avviando il lavoro pastorale, dopo le adeguate riflessioni dettateci dal vescovo nell’ultimo Convegno diocesano, non sono mancati momenti di pausa per supportare con “idee forti” quanto andremo ad attuare con i nostri sforzi e la nostra buona volontà. Se, tra queste idee, la scelta fra visibilità e nascondimento pastorale. Leggevo infatti di un cardinale tedesco che affermava: “in Germania la struttura organizzativa e la potenza della Chiesa è tale che essa potrebbe restare in piedi anche se tra i fedeli non ci fosse più fede”, d’altro canto poi suonano stimolanti le parole di Yves Congar: “la Chiesa illumina e comunica salvezza al mondo solo nell’annientamento quotidiano della sua visibilità terrestre, nell’oscurità della sua unione col Cristo”. Che scegliere per partire con il piede giusto?
Autorizza quel “predicare sui tetti” di Gesù alle “antenne paraboliche”,alla presenza in TV, perfino alla partecipazione di ministri ordinati in reality show…? O a deliranti manifestazioni folcloriche che nulla hanno di retta pietà popolare, con sagre o altro ciarpame illudendoci di annunziare così il regno di Dio? Non è forse da tener sempre presente, da vedere quasi in filigrana il Crocifisso-spettacolo che è contestazione del mondo e delle sue logiche, condanna di ogni durezza di cuore? La tentazione di fare pubblicità serve a piazzare “prodotti”, non a far
crescere la fede.
Nei nostri incontri, miei Cari, è su questo che dobbiamo insistere e convincerci, anche con i nostri ragazzi. Fede è un “camminare sulle acque” non una passeggiata per le sale del potere o le scale dei potenti.
Riscopriremmo così che non si fa il cristiano, ma lo si è, che non si dicono parole sante ma le si vivono e testimoniano con la vita.
In fondo in fondo si tratta di impostare, in quest’anno pastorale, una vita nuova, attinta dalla proposta esemplare che Gesù ci fa. In tal caso sarebbe la nostra vita di Crocefissirisorti ad essere “spettacolo” ed allora “parlerebbero anche le pietre”, fiorirebbe nei nostri cuori il rinnovato entusiasmo e quella gioia che Gesù ci ha promesso.

Buon Cammino…
Don Vincenzo

In margine al mese del Rosario

Il Rosario non si contrappone alla me-ditazione della Parola di dio e alla preghiera liturgica; rappresenta anzi un naturale e ideale complemento, in particolare come preparazione e come ringraziamento alla celebrazione eucaristica. Il Cristo incontrato nel Vangelo e nel Sacramento, lo contempliamo con Maria nei vari momenti della sua vita grazie ai misteri gioiosi, luminosi, dolorosi e gloriosi. Alla scuola della Madre, impariamo così a conformarci al suo divin Figlio e ad annunciarlo con la
nostra stessa vita. Se l’Eucaristia è per il cristiano il centro della giornata, il Rosario contribuisce in modo privilegiato a dilatare la comunione con Cristo, ed educa a vivere tenendo fisso su di Lui lo sguardo del cuore, per irradiare su tutti e su tutto il suo amore misericordioso.

Benedetto XVI

Facciamo un salto nell’aldilà


Ve lo immaginate un San Francesco che grida:”Voglio mandarvi tutti in Paradiso” ?
Questa è la ragione del Perdono di Assisi.
Una provvidenza inattesa e straordinaria al pensiero che qualcuno avrebbe dovuto affrontare il rischio e il pericolo mortale di una crociata per avere l’anima ripulita e pronta per la via del paradiso. Così andavano le cose all’inizio del 1200…

“Tutti in paradiso” gridato oggi non so che effetto avrebbe, certamente un po’ diverso da quello del passato.
Oggi, è ormai risaputo: paradiso, inferno, purgatorio patiscono di un tale grado di incredulità da scomparire dalla coscienza della maggior parte dei cosiddetti cristiani. Ne hanno dato conferma alcuni anni fa i nostri vescovi nel documento “Comunicare il vangelo in un mondo che cambia”: “È offuscato,se non addirittura scomparso nella nostra cultura, l’orizzonte escatologico, l’idea che la storia abbia una direzione, che sia incamminata verso una pienezza che va al di là di essa. Tale eclissi si manifesta a volte negli stessi ambienti ecclesiastici, se è vero che a fatica si trovano le parole per parlare delle realtà ultime e della vita eterna”. Il problema più serio non è nel linguaggio o nel fatto che queste realtà siano scomparse perché rifiutate o combattute ostinatamente dagli atei o dai miscredenti di una volta che profondevano le loro energie a negare l’esistenza di Dio, finendo poi con il diventare tenaci assertori, perché non si combatte ciò che non esiste.
No, oggi, purtroppo tutto viene lasciato cadere nell’insignificanza o nell’indifferenza
senza battere ciglio: non interessa e per questo non si crede. Parte di responsabilità di questa situazione va attribuita alle predicazioni che tendevano a provocare terrore e tremore: le fiamme dell’inferno, le orme di impronte bruciate dalle anime del purgatorio, il terribile Dies Irae, il giorno del giudizio, reso così bene nel Requiem di Verdi con il possente e inquietante suono delle trombe e dalla fantasia pittorica di Michelangelo nella Sistina, di Signorelli nel duomo di Orvieto…
I teologi di questi ultimi tempi hanno fatto notevoli tentativi per correggere il tiro e suscitare
interesse, presentando un’aldilà meno inquietante e più coinvolgente, un’aldilà come continuità
alle scelte di vita che stiano operando oggi, purificato da ombre tenebrose e illuminato da una giusta luce. Ne danno un saggio i vescovi sempre nel documento sopraccitato, in un passaggio
dedicato alle verità della vita eterna non parlano né di purgatorio né di inferno. Nel primo caso (purgatorio) sviluppano il concetto di purificazione, perché non si tratta di un luogo, ma di uno stato d’essere, che potrebbe concludersi con lo stesso istante dello morte e dell’incontro con Cristo.
Non anni di purgatorio, come si diceva una volta misurando il tempo di Dio con i nostri calendari, del resto dopo la morte non esistono più le categorie del tempo e dello spazio, ma istanti intensi di attesa dell’amore di Dio, con la sofferenza di non aver corrisposto pienamente.
Più anticamera del paradiso con lo stato di attesa (purificazione) che inferno dimezzato, come risultava dalle trame oratorie di predicatori di grido. Anche l’inferno non è luogo, quindi niente fiamme che bruciano. Se si prende familiarità con il linguaggio biblico si ha una comprensione diversa. L’inferno è visto come seconda morte. Esiste non come espressione della punizione e dell’ira di Dio, ma perché l’uomo lo rende tale, perché vuole escludersi totalmente dalla comunicazione con Dio.
Dio e spettatore rispettoso, ma impotente e addolorato, perché la libertà dell’uomo gli ha legato le mani. Nella versione tedesca del catechismo cattolico viene posto questo interrogativo: “Se Dio alla fine accogliesse nel suo regno anche coloro che si sono definitivamente dichiarati contro di lui, verrebbe ancora in tal modo garantita la libertà e quindi la dignità dell’uomo?” . Bella domanda!
Del resto, coloro che si dichiarano definitivamente contro Dio si sono creati quaggiù il loro inferno, perché incapaci di amare e di farsi amare, insensibili al bene e al bello, ripiegati iniquamente su se stessi e la loro egoistica e insaziabile avidità. Tale situazione getta una luce consolante sulle debolezze umane che non sono mai rifiuti cinici e definitivi dell’Amore, ma, appunto, solo fragilità e debolezze. Dunque,l’inferno non come castigo, ma come conseguenza di una libera scelta. Non pene o tormenti inflitti da Dio, ma unicamente il vuoto, l’infelicità, le tenebre senza fine di chi ha rifiutato sempre l’amore misericordioso. In proposito si avverte la necessità e l’urgenza di modificare il linguaggio dell’atto di dolore in cui si continua a recitare di “ aver meritato i castighi” di Dio.
E le fiamme dell’inferno che tanto hanno infuocato la fantasia di generazioni di predicatori e di pittori non provengono forse dal linguaggio biblico? Il fuoco è solo un’immagine e l’immagine non può essere scambiata con la realtà. Una foto mi richiama una persona, un evento, ma in definitiva rimane sempre un pezzo di carta, non è la persona. Con la sua forza immaginifica il fuoco vuole semplicemente significare che anche la creazione esterna collabora, aggravandolo sulla linea della corporeità, allo stato di infelicità totale di colui che si è volutamente escluso dal paradiso , quindi dalla vita, dall’incontro, dalla gioia, dall’amore, in definitiva da Dio che è tutto il bene, il sommo bene, l’unico bene. A questo punto forse qualche lettore si potrà rammaricare perché tale visione delle realtà ultime può indurre ad un lassismo sfrenato, tolta la paura dell’inferno si può fare quello che si vuole, tanto Dio è buono.
Innanzitutto volere una “ giusta” condanna per chi è in errore non fa parte del cuore di Dio e quindi nemmeno per chi vive di Lui: si deve volere il bene degli altri non la condanna. E “poi fare quello che si vuole ” , non toglie nulla a Dio, ma molto alla nostra piena realizzazione, alla nostra felicità, a noi stessi. Insomma non si imbroglia Dio, ma unicamente se stessi. Si potrebbe al più pensare che nella propria vita c’è sempre un angolo riservato a Dio e al momento opportuno ci si può rifugiare per salvarsi…È un ragionamento subdolo e pericoloso. Infatti chi di noi è in grado di sapere quando subentra nella nostra vita al rifiuto o all’essenza di Dio il momento del ritorno a Lui? Il rifiuto può essere una scelta ideologica o aprioristica, a cui può far seguito però una coerenza morale onesta e retta, in tal caso sarà Dio a giudicare. Ma può essere anche un indurimento del cuore provocato da un continuo ripetersi di peccati che rende impossibile il ritorno a Dio. Un cuore di pietra ormai incapace di pulsare e di amare. È il peccato che porta alla “seconda” morte. Non dimentichiamo che la Scrittura abbonda di testi che aprono ad una speranza illimitata e che raccontano dell’infinita misericordia di Dio; la stessa Scrittura ci pone di fronte alla possibilità reale della nostra perdizione. Non scherzare con il fuoco è una prudenza quanto mai opportuna da coltivare.


da il “cavaliere dell’Immacolata”

“ UN PAESE SPAESATO E IN CRISI MORALE ”

Un regno diviso in se stesso è destinato a perire. È un’antica verità, quasi lapalissiana, che potremmo modificare in questi termini, più attuali: una nazione divisa in se stessa, frantumata in mille pezzi, in mille istanze diverse e spesso inconciliabili, è destinata ad indebolirsi.
Oppure, celiando un po’ con i termini,un Paese sfinito è un Paese finito.
All’origine di questo infiacchimento del tessuto sociale c’è una evidente crisi morale. Mons. Bagnasco ha parlato di tendenze disgregatrici: mafie, incendi boschivi, divismo e divertimento nichilista, scarsa attenzione ai problemi delle giovani coppie (il problema della casa), l’assalto all’istituto familiare, preesistente al Cristianesimo, minano le basi della civile convivenza, attentano a quel complesso di valori morali che costituiscono l’ossatura o la spina dorsale di un popolo. L’elenco stilato dal presidente della Cei sarebbe stato oltremodo perfetto se ci fosse stata anche una critica esplicita a certa politica sempre più autoreferenziale, avvinghiata ai suoi privilegi mentre molta parte del Paese soffre, molte famiglie sbarcano il lunario (lo stesso Draghi, il Governatore della Banca d’Italia, ha evidenziato che gli stipendi dei lavoratori italiani sono i più bassi d’Europa, mentre, aggiungo io, le indennità dei nostri parlamentari sono le più alte!), molti giovani sono costretti ad arrangiarsi senza grandi prospettive (di qui il lasciarsi andare ad una sorta di scanzonato nichilismo fatto di discoteche e sballo). L’antipolitica grilliana è un fenomeno che ha radici nella disgregazione del Paese dovuta per buona parte alla arroganza ed alla indifferenza di una classe politica che, fattasi casta, pare abbia quale obiettivo principale la perpetuazione di se stessa piuttosto che il bene comune. Un esempio eclatante è dato dal sistema elettorale. I partiti preparano le liste, ci mettono chi vogliono e fanno eleggere chi vogliono, secondo una preferenza partitica e quindi sottratta al giudizio dell’elettore, che dovrebbe essere sovrano. La cosiddetta Prima Repubblica, almeno sotto questo profilo, era molto più democratica dell’attuale, il cittadino aveva la possibilità di esprimere la propria preferenza. Mentre nuovi (sic!) partiti nascono già divisi in se stessi e all’insegna del cinema e delle chiacchiere, scimmiottando l’America e culture che non ci appartengono, il Paese va alla deriva, le facce sono sempre le stesse, chi sta in politica da trent’anni e passa assurge ad uomo nuovo, gli ideali cedono il passo alla scenografia e a qualche copione da recitare a soggetto. Sulle finzioni e sulle belle parole non si costruisce nulla di solido, non c’è alcun dubbio.
Manca la sostanza. È l’universo valoriale che deve tornare al centro della vita individuale e comunitaria; sono i valori umani, l’onestà, il senso del dovere ed il sacrificio, la responsabilità verso se stessi e gli altri, l’amore per il proprio paese, lo studio, a dover tornare in auge, pena il dissolvimento del vincolo sociale, quelle spinte e controspinte che alla lunga lacereranno il tessuto comune. Fra i privilegi delle varie caste e le piccole furberie del popolo si situa quel territorio di nessuno che diventa terreno di coltura delle varie mafie, tanto più aggressive quanto più l’esempio che giunge dall’alto non è edificante.
I valori non possono essere inculcati con la forza, ma con l’esempio e il processo educativo. Primi responsabili sono quindi le famiglie, i padri e le madri, che spesse volte abdicano alla loro funzione educativa e morale per ridursi a svolgere quella “biologica” di genitori, cioè di datori di cibo e di cose materiali. Poi viene in rilievo la funzione della scuola, che, come rifletteva il Servo di Dio Giovanni Modugno di Bitonto, esimio pedagogo ed educatore, ha bisogno di “educatori colti” che abbiano preparazione pedagogica e non solo scientifica, perché quest’ultima “non basta per insegnare bene e tanto meno è, poi, sufficiente per formare il carattere dei giovani [...].” “Vivere è educarsi, ed educarsi è vivere”, così mi diceva Renato Dell’Andro riecheggiando la lezione del prof. Modugno. Una educazione permanente ai valori è quindi indispensabile per rimettere ordine nella vita personale e sociale. La Chiesa può fare molto in questo senso, purché non abdichi al suo ruolo di coscienza morale e conservi autorevolezza e credibilità, talvolta minata da episodi di singoli individui esecrabili e di estrema gravità. Chi ambisce ad insegnare e ad ammonire, ne sia degno in massimo grado.

Salvatore Bernocco

Nel Mese

Felicemente introdotti nel mese mariano di ottobre in onore della Madonna del Rosario. È stato il nostro Mons. Girasoli, Nunzio Apostolico a dare inizio con la celebrazione solenne e la sua omelia che non poteva non fare riferimenti alla devozione personale e di famiglia alla Vergine di Pompei. Sono riprese intanto le attività pastorali soffermandoci a riflettere sulla lettera Pastorale del Vescovo don Gino e che è stato punto di partenza attraverso il mandato che il parroco ha dato ai catechisti ed operatori pastorali parrocchiali. Anche dal punto di vista liturgico si è dato l’avvio attraverso la rivisitazione del repertorio da parte del
coro della parrocchia e i lettori,compresi quelli appartenenti al Cammino neo-catecumenale hanno partecipato nei giorni 23/25 presso l’Annunziata al Corso che si è tenuto per essi a livello cittadino. Gli incontri a vari livelli, in particolare quelli di catechesi che sono ripresi ogni lunedì sera per i giovani e giovanissimi hanno fatto sì che le scelte prioritarie che il vescovo ha indicato, avessero adeguata attuazione. Fondamentale è stato l’incontro che il parroco ha avuto con i genitori dei ragazzi che il prossimo 25 novembre riceveranno il sacramento della cresima. L’adorazione mensile comunitaria e la catechesi per il Gruppo Famiglia hanno dato compimento al lavoro svolto nel mese. Ottima la riuscita della Giornata Missionaria aanche attraverso la pesca a favore delle missioni che i giovani hanno -come ogni anno- promossa tra i componenti della Comunità.

Luca

Riflettiamo insieme

Siamo al cuore dell’autunno: gli alberi si spogliano delle foglie, le nebbie mattutine indugiano a dissolversi, il giorno si accorcia e la luce perde la sua intensità. Eppure ci sono lembi di terra, i cimiteri, che paiono prati primaverili in fiore, animati nella penombra da un crepitare di lucciole. Sono stati celti a collocare in questo tempo dell’anno la memoria dei morti,memoria che la chiesa poi ha cristianizzato, rendendola una delle ricorrenze più vissute e partecipate.
Nell’accogliere questa memoria,questa risposta umana alla “grande domanda” posta a ogni uomo, la chiesa l’ha proiettata nella luce della fede pasquale che canta la resurrezione di Gesù Cristo da morte,e per questo ha voluto farla precedere dalla festa di tutti i santi, quasi a indicare che i santi trascinano con se i morti, li prendono per mano. Ed è al tramonto della festa di tutti i santi che i cristiani non solo ricordano i morti, ma si recano al cimitero per visitarli,come a incontrarli e a manifestare l’affetto coprendo di fiori le loro tombe: un’affetto che in questa circostanza diventa capace di assumere il male che si è potuto leggere nella vita dei
propri cari. Per molti di noi là sotto terra ci sono le nostre radici, il padre,la madre quanti ci hanno preceduti e ci hanno trasmesso la vita, la fede cristiana e quell’eredità culturale, quel tessuto di valori su cui, pur tra molte contraddizioni, cerchiamo di fondare il nostro vivere quotidiano. Questa memoria dei morti è per i cristiani una grande celebrazione della resurrezione: quello che è stato confessato, creduto e cantato nella celebrazione delle singole esequie, viene riproposto qui, in un unico giorno, per tutti i morti. La morte non è più l’ultima realtà per gli uomini, e quanti sono già morti,andando verso Cristo non sono da lui respinti ma vengono risuscitati per la vita eterna,la vita per sempre con lui, il Risorto vivente.

Enzo Bianchi