Festa di S. Rocco: torna sempre ad essere riamato


Miei Cari,
con intelligenza e intuito pastorali, il vescovo don Gino ha accolto per quest’anno
la richiesta del Sodalizio di S.Rocco di riportare -come da tempi remoti- la festa esterna del Santo alla prima domenica di settembre, mentre la memoria liturgica ricade il 16 agosto. La festa esterna fu da sempre celebrata con tanta devozione e fede agli inizi di settembre e viene documentata da scritti e riproduzioni fotografiche. Alla fine dell’800 fu abbinata anche la processione della miracolosa
statua di S. Filomena cui era dedicata l’attuale parrocchia di S. Lucia e portata a Ruvo l’11 maggio 1835. Ai festeggiamenti subentrò la processione dei S.S. Medici e il vescovo Mons.Marena volle che il 28 settembre muovesse la processione della statua argentea di S. Rocco e alla quale partecipava egli stesso con l’intero Capitolo Cattedre e il collegio dei parroci.
Il 29 settembre, invece, avveniva quella dei S.S. Medici. Credo comunque che in giorno di domenica si evidenzia parimenti la santità di Dio che si manifesta nei Santi.
Sono poi contemporaneamente soddisfatti i Confratelli perché in tal modo non viene intaccato un giorno lavorativo come potrebbe avvenire se coincidesse con uno feriale.
L’approccio della nostra comunità a S. Rocco, da sempre considerato patrono minore di Ruvo, rimane forte e si rinsalda sempre più essendo stato Egli rifugio e speranza per le popolazioni di tutta l’Europa, impotenti di fronte al micidiale contagio incombente.
Ritengo che valga ancora di proporre e sottolineare la modernità insospettata di “testimone” autentico in una cultura ormai stanca di “sedicenti maestri”, un modello evangelico di distacco, povertà, semplicità per l’uomo di oggi, roso dalla follia dell’avere.
Rimane S. Rocco animatore di un servizio in un contesto in cui, assenti spesso i pubblici poteri, il volontariato è la sola risorsa. Esempio di altruismo in una realtà diversa per la razza e la cultura, difficile da amalgamare, che trova l’unica risposta nella “carità”.
Apostolo ancora una volta in un mondo inquinato da nuove forme di pesti.
Tutto ciò ci avverte che, non alla politica, alla tecnologia, alla scienza, realtà dalle molte potenzialità ma non definitive sono delegati le sorti dell’umanità, ma alla verità che è Dio. E il volto della verità è la carità, l’amore. S. Rocco ne è fulgido segno. Siano questi i pensieri che ci introducano nella festa che stiamo per celebrare.
Cordialmente.

Don Vincenzo

Quando la preghiera si fa pianto

Era un giorno di pioggia, scorreva lento l’autunno dell’ultima malattia.
Fu allora che mia madre mi insegnò, dalla sua cattedra di dolore, come pregare.
Ero seduto sul letto – volevo essere all’altezza dei suoi occhi‘– sul letto grande dove lei mi aveva dato alla luce. Dalla porta aperta vedevo in cucina la tavola di quercia, l’altare della casa. Le tenevo la mano, così ricca di pane e di carezze, mentre lei mi diceva: ´Figlio mio, prega adesso che stai bene, perché quando si sta male non si ha neppure voglia di pregareª. Così mi diceva, ma il suo corpo era preghiera.
Non ho più dimenticato quella fede dolente e amorosa che si preoccupava non di sé, ma si prendeva ancora cura di me; che – vangelo vivo – non pensava alla sua vita, ma alla mia. Mi diceva: non aspettare d’aver bisogno, prega nei giorni del bene, prega sui ponti degli affetti, prega sui sentieri della gioia, prega sui passi della luce.
Nella malattia è facile accusare, aggredire, ribellarsi o esserne spezzati: perché, Signore?
Perché a me? Difficile pregare nella malattia, perché il dolore è egocentrico al punto da eliminare ogni altro interesse. Ma difficile pregare anche per un altro motivo: che cosa chiedere al Signore?
Padre Turoldo ripeteva: ´Io non ho mai chiesto a Dio di guarirmi. Perché non può, non deve!
Perché deve guarire me e non il bimbo leucemico, o la giovane madre con il cancro? Invece ho sempre chiesto forza nella malattia, coraggio nella valle oscuraª.
Tuttavia, sotto la pressione della sofferenza, una preghiera resiste, ed è il gemito: dichiarazione che l’essere umano è un essere ferito, verità ultima dell’uomo: ´Padre, ho bisognoª. Il gemito: preghiera della ferita, quando non nego e non mi sottraggo al mio punto debole, quando non aggiro il dolore.
Quando percepisco Dio dal pulsare profondo della mia piaga.
Preghiera del corpo. Spesso, nel tempo della malattia, si compie in noi una perversa trasformazione: da vittime di un male che ci aggredisce a colpevoli di quello stesso male: è un castigo per quella colpa che mi pesa ancora. Ci comportiamo verso noi stessi come gli amici che visitano Giobbe (4,7-8) e lo colpevolizzano; ci trasformiamo in nostri persecutori anziché in consolatori. Ma il dolore non chiede spiegazioni, vuole condivisione. Non domanda motivazioni, cerca partecipazione. Malato e amici attendono insieme, con un cuore che si dice nell’incrocio degli occhi e che affiora, quando affiora, sulle labbra: ´Signore aiutami”. Malato e amici, appoggiando una fragilità all’altra, sostengono la vita.
In ogni paziente è il mondo intero a patire, il malato è l’icona di un’umanità visitata da un cielo e da una terra in pianto, da guardare e da cui essere guardati. La preghiera si fa sguardo.
Guardare che cosa? Guardare Gesù, ´la Parola uscita dal silenzio per essere senso al nostro silenzio; Gesù è il discorso di Dio sul doloreª (G.Bruni). Dinanzi al malato Gesù si commuove, si turba, scoppia in pianto, è preso alle viscere, prova dolore per il dolore dell’uomo afferrato da una mano che strazia e inquieta. Nella sua commozione e nel suo pianto vi sono il pianto e la commozione di Dio: Gesù che piange riassume il pianto dei mondi, nel suo particolare patire si annoda l’universale patire.
Allora la preghiera si risolve in pianto: ´Le mie lacrime nell’otre tuo raccogliª (Sal 56,9). Le raccoglie a una a una, le conserva perché nessuna vada perduta. Ha immensi archivi di lacrime, il Signore, e non di peccati da rinfacciarmi nel giorno del giudizio.
Uno sterminato tesoro di lacrime è misteriosamente custodito in Dio, e l’eloquenza delle lacrime, la loro preghiera durerà per l’eternità. Il mondo è un immenso pianto, perciò è un’immensa preghiera. E un immenso parto: Gesù davanti al malato sta come colui che indica un futuro sottratto al dolore e alla morte.

Gesù Risorto

Il “Cristo” risorto non è il “Gesù” morto in croce. In croce è morto Gesù/uomo, non Cristo/Dio. Il risorto è, per l’appunto, Cristo/Dio. Non sono la stessa persona? Si e no! Il Gesù risorto non è più il Gesù di prima. E’, per l’appunto, un Gesù/risorto cioè glorificato, cioè “spiritualizzato” (che vuol dire “ripieno dello Spirito”), cioè che si trova in un’altra condizione. Questo non significa che non sia reale, perché, fino a prova contraria, non è reale solo ciò che è materiale. E’ reale anche ciò che è immateriale, come i numeri, le idee, i desideri... l’anima, infine!
Dunque essere presenti “in carne e ossa”, non significa essere il Gesù di prima così e semplicemente. Tant’è che dopo la risurrezione appare e scompare, entra a porte chiuse, agisce insomma come mai aveva fatto prima; significa però che è reale tanto quanto quello di prima. Gesù vuole insegnare che la risurrezione non è una riedizione pura e semplice della vita fisica: si tratta di un altro “stato”, di un altro “modo”, di un’altra “realtà”, tangibile, contabile, percepibile, valutabile. Ecco il perché dello “spuntino di pesce”, dell’esortazione a “toccare”: “Sono io, sono vivo”. Questa, dunque è la verità da apprendere.


B.S. Settembre 2009

RAVE PARTY E SPIRITO SANTO

Drogarsi, stordirsi, ubriacarsi di alcol e di musica ad alto volume. Rischiare di morire per scelta consapevole, esaltare la morte quale via di fuga da un mondo “che fa schifo”, come sostengono molti giovani che prendono parte a questo nuovo delirio nichilista chiamato rave party, dove la vita è appesa ad un filo tenue che può spezzarsi in qualsiasi momento.
Sballarsi nei rave party usando anfetamine, droghe ed alcol è prassi normale per molti giovani sbandati. Anzi, se non ti sballi, non sei. In un servizio che i nostri telegiornali hanno dedicato ad un rave party tenutosi in Puglia, si vedevano ragazzi che come zombie si dimenavamo a pochi centimetri da enormi casse acustiche. Non più in sé, erano totalmente preda del demonio della droga, vittime consapevoli dell’alcol, carne da macello, anime predestinate a fine certa.
Uno spettacolo deprimente, la trasposizione in chiave moderna di un girone dantesco, con i dannati costretti a ballare senza sosta. Come l’uomo possa giungere ad un simile degrado è un mistero. Rientra nel mistero del male che serpeggia nelle società e nei nostri cuori. È il mistero della zizzania che contende suolo fertile al grano. Se si riflette sul fatto che il 95% delle banconote americane reca tracce di cocaina, che a Firenze si consuma più droga che a Londra (circa 500.000 dosi in 6 mesi) , che a Roma si contano tra i 25 e i 30 mila consumatori abituali di droga (ma il numero sale di dieci volte tanto se si sommano anche i consumatori occasionali), che a Bari il mercato della droga è in auge, è facile intendere le dimensioni di un fenomeno che fa rabbrividire e rispetto al quale pare si sia inermi.
Soltanto un tuffo rigeneratore nelle acque dello Spirito Santo può restituire forza, dignità e vita ad una umanità che sostituisce al Senso il sesso, che beve birra e si fa di droghe sin da tenera età, assaporando il gusto amaro del male. In filigrana si legge un desiderio inevaso di felicità, di gioia, che solo una ricca interiorità, una spiritualità feconda può soddisfare.
Il punto è: come far comprendere ai giovani che la speranza, l’amore, la gioia si acquistano in Dio e con Dio? Come far comprendere che chi confida in Dio riacquista la forza? Cosa fare in questo contesto segnato dal tormento e dal dolore, in cui, smentendo il detto comune, non la religione è l’oppio dei popoli, ma l’oppio è la nuova religione dei popoli? Non ho una risposta, forse non c’è una risposta facile. Di certo c’è che il disagio nasce nelle famiglie, sottoposte a forti tensioni endogene ed esogene, e dilaga nella società. Se la famiglia è malata, lo è anche la società. Se l’individuo è malato, lo è anche la coppia. Occorrerebbe quindi ripartire dalla persona umana, dalla sua ri-educazione, da un progetto di nuova evangelizzazione che sia nel contempo spirituale e culturale. Certi modelli di vita (rectius, di morte) vengono da idee filosofiche malate, subdolamente penetrate nella mente dell’uomo, in cui l’accento è posto sulla morte o l’inutilità o l’assenza di Dio. Poiché da idee marce non possono che nascere comportamenti marci, i risultati sono sotto gli occhi di tutti: giovani dalle vite spezzate, figli e figlie di uomini e donne che hanno confinato Dio nei perimetri delle chiese o fra i miti e le favole.

Salvatore Bernocco

Prima di dire: “ Ti amo ” … pensaci!

La parola amore viene usata oggi con estrema facilità e non sempre si ha la consapevolezza del suo significato profondo.
Vorrei porvi la riflessione che i vescovi fanno su questo argomento, nella lettera molto interessante, dal titolo: “Ai cercatori di Dio”. In effetti al capitolo secondo intitolato: “amore e fallimenti” viene affrontata questa tematica.
Siamo fatti per amare. L’amore dà la vita e vince la morte: se c’è in me una certezza incrollabile, essa è quella che un mondo che viene abbandonato dall’amore deve sprofondare nella morte, ma che là dove l’amore perdura, dove trionfa su tutto ciò che vorrebbe avvilire, la morte è definitivamente vinta (Gabriel Marcel). Ci fanno paura le persone aride, spente nella voglia di amare e di essere amate.
L’amore invece è irradiante, contagioso, origine prima e sempre nuova della vita. Per amore siamo nati. Per amore viviamo. Essere amati è gioia. Senza amore la vita è triste e vuota.
L’amore è uscita coraggiosa di sé, per andare verso gli altri e accogliere il dono della loro diversità dal nostro io, superando nell’incontro l’incertezza della nostra identità e la solitudine delle nostre sicurezze.
Occorre allora imparare ad amare prima di dire con troppa facilità “ti amo”. Viviamo nel tempo dove si vive la precarietà dell’amore. Dove abbiamo introdotto la logica del consumismo nella nostra vita affettiva. L’usa e getta che trasforma le nostre relazioni in un gioco squallido di puro istinto.
Quella dell’amore, invece, è la storia più personale della nostra esistenza. Riconosciamo i percorsi e proclamiamo gli eventi che la punteggiano. Tante volte però ci troviamo affaticati, stanchi, sollecitati a fermarci al bordo della strada a causa di delusioni e incertezze.
Riconosciamo che nella via dell’amore c’è sempre una provenienza, un’accoglienza e un avvenire.
La provenienza è l’uscire da sé nella generosità del dono, per la sola gioia di amare: l’amore nasce dalla gratuità o non è amore.
L’accoglienza è il riconoscimento grato dell’altro, la gioia e l’umiltà del lasciarsi amare.
L’avvenire è il dono che si fa accoglienza e l’accoglienza che si fa dono, l’essere liberi da sé per essere l’uno con l’altro e nell’altro, in una comunione reciproca e aperta agli altri, che è libertà.
Tutto questo è difficile. Mille ostacoli attraversano il cammino e spesso lo bloccano. Basta uno sguardo al mondo dei rapporti umani, per constatare l’evidenza di tanti fallimenti. E lo dico con un senso di sofferenza, senza mai giudicare nessuno. Amori che finiscono. E’ un’evidenza che appare persino chiassosa ed
inquietante.
Siamo fatti per amare e scopriamo quasi di non esserne capaci. Originati dall’amore, ci sembra tanto spesso di non sapere suscitare amore. Perché? Ce lo chiediamo quando la nostalgia di esperienze di amore, intense e limpide attraversa la nostra esistenza e colora i nostri sogni. Qualcuno, raccogliendo le parole dalla sua esperienza, suggerisce ragioni e prospettive di questa fatica di amare, tutte comunque, da verificare in prima persona. Sono la possessività, l’ingratitudine, e la tentazione di catturare l’altro, le forme che più comunemente paralizzano il cammino dell’amore. Allora l’espressione tanto inflazionata ti amo, si risolve soltanto in un pallido mi amo.
La possessività paralizza l’amore perché impedisce il dono, bloccando il cuore in un
avido e illusorio accumulo di ricchezza per sé.
L’ingratitudine è l’opposto della riconoscenza gioiosa. Impedisce l’accoglienza dell’altro e impoverisce l’anima, perché dove non c’è gratitudine, il dono stesso è perduto.
La cattura è frutto della gelosia, e insieme della paura di perdere l’istante posseduto: in una sorta di sazietà illusoria essa chiude lo sguardo verso gli altri e verso l’avvenire.
Come divenire capaci di amare oltre ogni possessività, ingratitudine e prigione del cuore? Chi ci renderà capaci di amare? Occorre innanzitutto approfondire cosa significa amore.
Poi occorre come ci suggeriscono i vescovi nonostante tanti fallimenti è ancora possibile amare. Ci dicono: abbiamo cercato parole per dire il nostro amore, quello che ci fa nascere, vivere e sperare. Abbiamo dovuto usare parole amare, come delusione, fallimento, tradimento, incertezza, chiusura, egoismo. Non è tutto così per fortuna. Nell’amore si può sempre rinascere.
Sia all’interno della propria realtà di coppia il dialogo si può sempre riprendere.
Sogniamo esperienze nuove perché gli altri, amici vicini o sconosciuti, ci restituiscono fiducia nell’amore e sicurezza nella sua vittoria, nonostante tutto.
Davvero lo scontro tra amore e tradimento mette la nostra esistenza in una condizione di inquietudine, che scopriamo sempre presente e nuova, anche quando ci sembra di averla superata e risolta. Nel silenzio del nostro cuore inquieto troviamo una domanda che avvolge tutto il mistero del nostro esistere e che si proietta in avanti, anche quando sperimentiamo risposte che sembrano soddisfacenti.
Soprattutto deve diventare veramente nostra la risposta che ognuno di noi darà a questa domanda.
Ciascuno è chiamato ad esprimerla nella sua storia personale e a dire a se stesso le sue buone ragioni per amare a partire dal proprio vissuto. La solidarietà che ci lega ci spìnge però a rompere il silenzio per farci ciascuno proposta per gli altri.
Si: c’è in noi un immenso bisogno di amare ed essere amati. Davvero. E’ l’amore che fa esistere (Maurice Blondel). E’ l’amore che vince la morte: amare qualcuno significa dirgli “tu non morirai” (Gabriel Marcel).
Sono delle indicazioni importanti che i vescovi ci offrono per tentare di delineare alcuni passaggi su che cosa significhi amare.
Più dettagliatamente in seguito accentueremo il discorso su come potremmo applicare tutta questa premessa sulla realtà di coppia.
Intanto prima di dire ti amo; pensaci… perché tu non debba troncare tutto quando amare diventa impegnativo e richiede coraggio.

Nel Mese

Per alcuni dei nostri e per il parroco, il mese di luglio si aprì con l’indimenticabile pellegrinaggio in Terra Santa. Seguirono poi le varie fasi per organizzare il campo scuola per le famiglie e l’oratorio estivo per i ragazzi che allietarono con la loro vivacità il circondario della chiesa celebrato il novenario in onore di S.Anna e molte furono le mamme che si portarono ad onorare la Santa. La sera del 26 dopo la solenne celebrazione eucaristica vi fu la benedizione dei bambini cui seguì la festa esterna nella piazza antistante la chiesa.
Il 1° agosto ci portammo poi in pellegrinaggio alla tomba di Don Tonino e dopo il momento di preghiera, visitammo la casa, e la parrocchia ove fu battezzato. Ci recammo poi ad Otranto per visitare la cattedrale e lì salutammo il vescovo don Donato; sulla via del ritorno facemmo sosta a Palmariggi dallo scultore Rocco Zappatore. Diversi poi gli anniversari di Matrimonio celebrati in parrocchia, fra cui quelli di alcuni membri del gruppo famiglia. Celebrammo poi il triduo in onore dell’Assunta e la memoria liturgica di S. Rocco. Demmo poi inizio al campo per la famiglia presso la Villa Jazzo de Cesare: un’esperienza molto bella di fraternità, comunione e solidarietà che vide presenti a volte anche una quarantina di membri anche se non "sulle vette dei monti o al mare”.
Tutto poi fu predisposto perché il 24 agosto ebbero inizio i lavori di pitturazione della chiesa, volendo così rifare il look alla nostra parrocchia e prepararci anche in questo modo alla celebrazione del 40° di sacerdozio del parroco.


Luca