Tempo di AVVENTO, ovvero ESSENZIALITÀ
Miei Cari,
tra le letture e gli approfondimenti di questi giorni, mi ha segnato il concetto di “Avvento, come tempo dell’essenzialità”. Non è questo il tema e il contenuto sui quali stiamo tornando spesso in questi ultimi tempi? Difatti, l’Avvento, pur essendo un tempo liturgico breve, arricchito di solennità e memorie che hanno assunto quasi un ruolo principale, tanto da frammentare l’attesa con un senso di compiutezza, esprime nei migliori dei modi il senso del cammino credente, sottolineato più volte nella stessa quotidiana celebrazione eucaristica: nell’attesa della tua venuta.
L’Avvento non è solo attesa di ciò che deve venire, ma anche slancio verso ciò che si completerà. Avvento è slancio da non impoverire con lo scintillio delle luci, delle vetrine o dell’apparenza, dall’opulenza o dal superfluo. Per noi invece il tempo di Avvento deve farsi tempo dell’essenzialità; ce lo ricordano molto bene le figure del Battista e di Maria. Essenzialità per noi deve assumere un significato profondo: ricerca. Scrive opportunamente M. Francavilla che l’essenzialità oggi si presenta come ricerca, come gusto di ricercare ciò che è perduto, ricercare uno stile di vita confacente, una sobrietà che sottolinei il giusto valore delle cose.
Chi attende non si distrae, non sposta l’attenzione da ciò che conta. Solo così il tempo di Avvento, puntando sulla Essenzialità assumerà altri nomi: Prossimità, integrazione, sostegno,condivisione, servizio. In una parola “Incarnazione”. S.Paolo infatti afferma che Cristo ha percorso la via dell’essenzialità non solo per arrivare all’uomo, ma soprattutto per farsi “Uomo”. Noi diventeremo uomini nuovi che introdurranno la speranza nel mondo, donandola a chi non vede il domani, a chi è deluso del mondo in cui viviamo, a chi ne ha paura.
È così che voglio formulare l’augurio a tutti e a ciascuno di voi mentre ci avviamo verso il Natale di Gesù.
Cordialmente Don Vincenzo
Leggi tutti gli articoli di questo numero:
ANNO XXI - N.12
1982 - 8 Dicembre - 2007
Mentre l’8 dicembre 1982 celebrava il suo XXV di sacerdozio, il tanto amato Don Tonino faceva il suo ingresso nella Diocesi di Ruvo (era stato eletto il 30 Settembre 1982). Mai dimenticheremo la gioia e la festa che la nostra comunità gli tributò mentre Egli si apprestava ad attraversare la nostra città,vestito dei paramenti sacri, indossati nella nostra chiesa parrocchiale.
Il prossimo 8 Dicembre avrebbe compiuto 50 anni di sacerdozio. Oggi lo pensiamo valido Intercessore essendo, ormai nella sfera dell’amore infinito di Dio
Leggi tutti gli articoli di questo numero:
ANNO XXI - N.12
PERCHE’ RUVO NON CRESCE
Pochi giorni ci separano dal 2008, che speriamo sia un anno migliore per il nostro paese, segnato
da un andazzo che lascia perplessi, talvolta increduli quando non rassegnati. Diciamo subito che la rassegnazione è un sentimento da evitare con cura, perché inclina al nero, cioè ad un pessimismo senza via d’uscita, ad una sorta di depressione collettiva. Per il rassegnato “non c’è più nulla da fare, nulla è destinato a cambiare, tutto è fermo”.
L’incredulità invece nasce in un animo ancora aperto alla speranza, fondamentalmente ottimista, capace ancora di provare meraviglia. L’incredulo ruvese si domanda esterrefatto se ciò che capita nel suo paese (rectius: non capita) sia vero o frutto della sua fervida fantasia oppure il risultato della generale rassegnazione.
Come mai a Ruvo non capita mai niente? Come mai non si avverte un desiderio si riscatto, di rivincita, di rinascita? Come mai si respira un’aria malsana o di ritirata? E chi l’ha suonata? Sono le domande che si pone l’incredulo, che, essendo anche un po’ingenuo, resta a bocca aperta dinanzi alla montante marea dei “nulla di fatto”, dei rinvii, delle promesse non mantenute, delle incapacità ed inettitudini, delle lamentazioni che riecheggiano quelle bibliche di Giobbe. I perplessi invece appartengono alla schiera dei dubbiosi, e si sa che il dubbio è il padre della filosofia, laddove la meraviglia ne sarebbe la genitrice. I perplessi filosofano, discettano, argomentano, additano al pubblico ludibrio o quello a seconda dell’umore o della propria
convenienza. Talvolta partoriscono qualche buona idea che, a causa della tendenza dubitativa e cogitabonda, subito si dilegua nell’aere circostante. Per darsi un tono spesso dicono di essere dei progettisti, di avere idee avanzate e progressiste, ma in realtà sono profeti dell’incertezza e della paralisi. Difatti, perplesso è sinonimo di incerto, e dagli incerti, anche quando per mero caso dovessero trovarsi a fare politica, non bisogna aspettarsi granché. Prima di muovere un passo devono avere ottenuto ampie rassicurazioni, devono essersi cinti i fianchi di consigli e cautele, salvo poi pentirsene quasi subito. Spesso vengono indicati con l’espressione di “tenutari delle carte a posto”. A scanso di equivoci gli integerrimi tenutari della legalità (formale) non appartengono solo al mondo della burocrazia o della politica, ma anche alla società o a quella parte di essa che esibisce un ordine esteriore, o almeno una sua parvenza, mentre all’interno è tutto un brulicare di vermi ed una fermentazione di putridume.
Più o meno in questi termini Gesù si rivolse ai farisei e ai dottori della legge, depositari, appunto, ed interpreti rigorosi di una legge formale, fatta di centinaia di prescrizioni e divieti, a cui non corrispondeva nessuna forma di amore concreto per il prossimo, quindi qualcosa di realmente positivo. Li definì “ipocriti”, una parola che proviene dal greco e che significa “attore”.
I teorici della massima legalità (formale) sono i migliori attori ma i peggiori nemici dell’uomo e delle comunità umane. Come mai allora a Ruvo c’è questo andazzo generale, che è cosa diversa da un normale andamento delle cose e della vita politica e sociale? Come mai nel nostro paese si ricorre all’anonimato per calunniare gli avversari politici? Come mai - ma questa è una metafora – nei pressi della Posta centrale c’è un segnale stradale che indica l’imbocco di un autostrada laddove c’è solo un dedalo di vie cittadine? A Ruvo autostrade non ce ne sono, ci sono semmai vie e viuzze secondarie, molte delle quali fatte a groviera, alcune rattoppate alla meglio. È appunto una metafora della condizione culturale in cui versa il nostro paese, che non dovrebbe dimenticare quanto detto da Gesù a proposito dei rattoppi o del vino nuovo in otri vecchi: i rattoppi lacerano gli abiti, il vino nuovo necessita di otri nuovi. Quindi, perché questo andazzo? Semplicemente perché non si va più alla sostanza delle cose o al merito, si è superficiali, ci si trincera dietro la montagna delle carte, dei codici, dei commi e dei regolamenti, spesso contraddittori fra loro, non si semplifica (semplificazione non vuol dire libertinaggio), si ama meno la propria comunità, ci si preoccupa esclusivamente di far tornare la sostanza dei propri conti. Tutto il resto, quindi tutto il meglio, viene purtroppo consegnato al formalismo delle leggi, alle dispute infinite dei perplessi di professione, ai profeti dell’incertezza e agli specialisti del rinvio, affinché, con le loro specifiche competenze ed inclinazioni, ne traggano abbondanti e capziose ragioni per frenare la crescita civile, culturale, sociale ed economica della città.
Salvatore Bernocco
da un andazzo che lascia perplessi, talvolta increduli quando non rassegnati. Diciamo subito che la rassegnazione è un sentimento da evitare con cura, perché inclina al nero, cioè ad un pessimismo senza via d’uscita, ad una sorta di depressione collettiva. Per il rassegnato “non c’è più nulla da fare, nulla è destinato a cambiare, tutto è fermo”.
L’incredulità invece nasce in un animo ancora aperto alla speranza, fondamentalmente ottimista, capace ancora di provare meraviglia. L’incredulo ruvese si domanda esterrefatto se ciò che capita nel suo paese (rectius: non capita) sia vero o frutto della sua fervida fantasia oppure il risultato della generale rassegnazione.
Come mai a Ruvo non capita mai niente? Come mai non si avverte un desiderio si riscatto, di rivincita, di rinascita? Come mai si respira un’aria malsana o di ritirata? E chi l’ha suonata? Sono le domande che si pone l’incredulo, che, essendo anche un po’ingenuo, resta a bocca aperta dinanzi alla montante marea dei “nulla di fatto”, dei rinvii, delle promesse non mantenute, delle incapacità ed inettitudini, delle lamentazioni che riecheggiano quelle bibliche di Giobbe. I perplessi invece appartengono alla schiera dei dubbiosi, e si sa che il dubbio è il padre della filosofia, laddove la meraviglia ne sarebbe la genitrice. I perplessi filosofano, discettano, argomentano, additano al pubblico ludibrio o quello a seconda dell’umore o della propria
convenienza. Talvolta partoriscono qualche buona idea che, a causa della tendenza dubitativa e cogitabonda, subito si dilegua nell’aere circostante. Per darsi un tono spesso dicono di essere dei progettisti, di avere idee avanzate e progressiste, ma in realtà sono profeti dell’incertezza e della paralisi. Difatti, perplesso è sinonimo di incerto, e dagli incerti, anche quando per mero caso dovessero trovarsi a fare politica, non bisogna aspettarsi granché. Prima di muovere un passo devono avere ottenuto ampie rassicurazioni, devono essersi cinti i fianchi di consigli e cautele, salvo poi pentirsene quasi subito. Spesso vengono indicati con l’espressione di “tenutari delle carte a posto”. A scanso di equivoci gli integerrimi tenutari della legalità (formale) non appartengono solo al mondo della burocrazia o della politica, ma anche alla società o a quella parte di essa che esibisce un ordine esteriore, o almeno una sua parvenza, mentre all’interno è tutto un brulicare di vermi ed una fermentazione di putridume.
Più o meno in questi termini Gesù si rivolse ai farisei e ai dottori della legge, depositari, appunto, ed interpreti rigorosi di una legge formale, fatta di centinaia di prescrizioni e divieti, a cui non corrispondeva nessuna forma di amore concreto per il prossimo, quindi qualcosa di realmente positivo. Li definì “ipocriti”, una parola che proviene dal greco e che significa “attore”.
I teorici della massima legalità (formale) sono i migliori attori ma i peggiori nemici dell’uomo e delle comunità umane. Come mai allora a Ruvo c’è questo andazzo generale, che è cosa diversa da un normale andamento delle cose e della vita politica e sociale? Come mai nel nostro paese si ricorre all’anonimato per calunniare gli avversari politici? Come mai - ma questa è una metafora – nei pressi della Posta centrale c’è un segnale stradale che indica l’imbocco di un autostrada laddove c’è solo un dedalo di vie cittadine? A Ruvo autostrade non ce ne sono, ci sono semmai vie e viuzze secondarie, molte delle quali fatte a groviera, alcune rattoppate alla meglio. È appunto una metafora della condizione culturale in cui versa il nostro paese, che non dovrebbe dimenticare quanto detto da Gesù a proposito dei rattoppi o del vino nuovo in otri vecchi: i rattoppi lacerano gli abiti, il vino nuovo necessita di otri nuovi. Quindi, perché questo andazzo? Semplicemente perché non si va più alla sostanza delle cose o al merito, si è superficiali, ci si trincera dietro la montagna delle carte, dei codici, dei commi e dei regolamenti, spesso contraddittori fra loro, non si semplifica (semplificazione non vuol dire libertinaggio), si ama meno la propria comunità, ci si preoccupa esclusivamente di far tornare la sostanza dei propri conti. Tutto il resto, quindi tutto il meglio, viene purtroppo consegnato al formalismo delle leggi, alle dispute infinite dei perplessi di professione, ai profeti dell’incertezza e agli specialisti del rinvio, affinché, con le loro specifiche competenze ed inclinazioni, ne traggano abbondanti e capziose ragioni per frenare la crescita civile, culturale, sociale ed economica della città.
Salvatore Bernocco
Leggi tutti gli articoli di questo numero:
ANNO XXI - N.12
1969 - 7 Dicembre - 2007
Grazie, Signore, per il dono del Sacerdozio!
A don Vincenzo, nell’Anniversario della sua Ordinazione Sacerdotale
il nostro affetto e la nostra preghiera, mentre si avvicina la data della
ricorrenza del suo XXV di Parrocato tra noi.
Il Sacerdote
E’ l’uomo più amato e più incompreso;
il più cercato e il più rifiutato.
E’ la persona più criticata,
perché deve confermare
con il suo esempio
l’autenticità del messaggio.
E’ il fratello universale,
il cui mandato è solo quello di servire,
senza nulla pretendere.
Se è santo, lo ingoriamo;
se è mediocre, lo disprezziamo.
Se è generoso, lo sfruttiamo;
se è” interessato”, lo critichiamo.
Se siamo nel bisogno, lo assilliamo;
se vengono meno le necessità,
lo dimentichiamo.
E solo quando ci sarà sotratto
comprenderemo
quanto ci fosse indispensabile e caro.
A don Vincenzo, nell’Anniversario della sua Ordinazione Sacerdotale
il nostro affetto e la nostra preghiera, mentre si avvicina la data della
ricorrenza del suo XXV di Parrocato tra noi.
Il Sacerdote
E’ l’uomo più amato e più incompreso;
il più cercato e il più rifiutato.
E’ la persona più criticata,
perché deve confermare
con il suo esempio
l’autenticità del messaggio.
E’ il fratello universale,
il cui mandato è solo quello di servire,
senza nulla pretendere.
Se è santo, lo ingoriamo;
se è mediocre, lo disprezziamo.
Se è generoso, lo sfruttiamo;
se è” interessato”, lo critichiamo.
Se siamo nel bisogno, lo assilliamo;
se vengono meno le necessità,
lo dimentichiamo.
E solo quando ci sarà sotratto
comprenderemo
quanto ci fosse indispensabile e caro.
Leggi tutti gli articoli di questo numero:
ANNO XXI - N.12
Nessuno è straniero
Il tuo Cristo era un ebreo,
la tua automobile è giapponese,
la tua pizza è napoletana,
il tuo profumo è francese,
il tuo riso è cinese,
la tua democrazia è greca,
il tuo caffè è brasiliano,
il tuo orologio è svizzero,
la tua cravatta è di seta italiana,
la tua radio è coreana,
le tue vacanze sono turche,
tunisine o marocchine,
i tuoi numeri sono arabi,
le tue lettere sono latine…
E… tu rinfacci
al tuo vicino di essere
“uno straniero” ?!?
Leggi tutti gli articoli di questo numero:
ANNO XXI - N.12
“ Convivenza, l’illusione della libertà”
Riportiamo brevi stralci dal libro “Felici e sposati, Coppia, Convivenza,
matrimonio” di Tony Anatrella, sacerdote francese, psicanalista e saggista.
Le unioni di fatto non sono nuove nella storia, ma è solo recentemente che la coabitazione fuori dal matrimonio si è sviluppata come scelta deliberata.
(…) Ma, di fronte all’aumento dei divorzi, gli animi sono stati invasi da un timore cui fanno eco oggi gli interrogativi di numerosi giovani che esitano ad impegnarsi: la paura di sbagliare persona, di dover‘“rompere” un giorno e di vivere un fallimento affettivo rende i partner esitanti davanti al matrimonio. (…)
LA LEGGE FA PAURA
I conviventi sono in una posizione del tutto ambivalente: non domandano nulla alla società e rifiutano qualsiasi impegno nei suoi confronti.
Eppure, desiderano vedersi concedere gli stessi diritti delle persone sposate, a dispetto delle ricadute sul tessuto sociale. Invece di privilegiare il senso dell’impegno, che dovrebbe essere il solo tenuto in considerazione dalla società, il legislatore legifera in nome dei sentimenti: ciò sembra aleatorio e troppo fragile per assicurare la coerenza del tessuto sociale.
In un tal clima, non stupisce di veder emergere le più svariate richieste di riconoscimento di “unioni” che poggiano sui soli sentimenti esistenti tra due persone.
(…) Riducendo il matrimonio al semplice rango di un contratto tra gli altri, ciò che non è, il legislatore livella tutte le situazioni. Ora, se tutte le situazioni si equivalgono, niente più ha valore. Nessuno è obbligato a sposarsi e spetta a ciascuno organizzarsi l’esistenza a piacere. Ma come si può far credere che psicologicamente e socialmente il matrimonio e la convivenza abbiano lo stesso valore? Una società nella quale l’idea dell’impegno è regresso, è malata.
Non dobbiamo aver paura dei “paroloni”: ci vogliono uomini e donne che si sposano e durano insieme per assicurare la speranza e la continuità del tessuto sociale. Quando un uomo e una donna si sposano, donano gioia e portano vita intorno a sé. Dobbiamo avere l’onestà di ammettere che l’annuncio di una convivenza o di un‘pacs non provoca lo stesso effetto.
UN AMORE PIÙ AUTENTICO?
Cosa sta succedendo oggi? La convivenza tende a rimpiazzare in parte il fidanzamento di una volta. I partner vanno a vivere insieme nella speranza di un impegno definitivo; altri invece si stabilizzano nella convivenza per restare liberi di fronte alla società.
Hanno l’impressione che la relazione fondata unicamente sui sentimenti sarà più autentica del matrimonio. Strana ipotesi…
(…) In realtà, la convivenza svolge molto spesso un ruolo illusorio nella relazione. Il fatto di non prendere un impegno pubblico permette di evitare di porsi alcune domande sulla natura dei propri sentimenti o sulla propria storia personale, sul moltiplicarsi di simili avventure infeconde, su cosa ne sia delle immagini parentali di ciascun partner, sulla propria sessualità, sulle proprie inibizioni e rimozioni, sulla propria educazione, sui valori di vita da concretizzare insieme; in breve, sul senso che l’altro rappresenta per sé e su ciò che si desidera costruire e finalizzare
insieme. Una relazione che non presuppone un impegno nel tempo di fronte alla società non è, in sé, più autentica di quella vissuta da due persone sposate.
Anzi, è la relazione vissuta nella convivenza che ha molte più possibilità di essere inautentica, nella misura in cui può servire a dissimulare delle verità che non si vogliono sentire. Un giorno, però, la questione dl matrimonio si pone anche nella coppia di conviventi. I partner non possono, infatti, evitare le domande sull’amore che li lega, sul loro impegno reciproco, e infine sulla durata, che è attinente a una relazione autentica. È il momento in cui compare il bambino - in cui cioè un elemento “terzo” adduce la prova e convalida la qualità e l’identità della relazione -. Come il bambino trova la prova dell’amore che i genitori nutrono per lui nell’amore coniugale, gli sposi trovano la dimostrazione del loro amore nell’impegno matrimoniale: “La prova del mio amore è di chiederti di sposarmi”, possono dirsi. La volontà di sposarsi è la sola prova che si possa dare a se stessi e offrire all’altro: quella di impegnarsi in un progetto comune (…).
UNA SOCIETÀ CHE NON PROTEGGE IL MATRIMONIO
Riconoscendo alle unioni di fatto uno statuto istituzionale simile a quello del matrimonio e della famiglia, la nostra società corre dei‘rischi assurdi.
Nell’ordine dei principi, bisogna lasciare all’intelligenza la distinzione tra interesse pubblico e interesse privato. Nel caso dell’interesse pubblico, la società e le autorità hanno il dovere di proteggerlo e promuoverlo. Nel caso dell’interesse privato, lo Stato deve limitarsi a garantire la libertà. L’interesse pubblico è di competenza del diritto pubblico, mentre quanto attiene agli interessi privati deve essere lasciato all’ambito privato. Il matrimonio e la famiglia assumono un interesse pubblico, per il fatto che rappresentano la cellula base della società e dello Stato. Come tali, devono essere riconosciuti e protetti.
Eppure, questa non è la direzione assunta dal potere politico. La famiglia, cellula base della società, rischia di essere, giuridicamente parlando, un guscio vuoto(…). Non è che una qualunque unione possa diventare una famiglia: il fatto che due persone vivano insieme non riveste necessariamente un interesse pubblico.
Nel matrimonio, un uomo e una donna costituiscono tra loro un patto per tutta la vita, ordinato per sua stessa natura al bene degli sposi, alla procreazione dei bambini e alla loro educazione. A differenza delle unioni di fatto, essi si prendono pubblicamente e formalmente degli impegni, e si assumono delle responsabilità di cui potranno anche rispondere davanti a un tribunale. L’instabilità affettiva delle coppie che rompono il legame coniugale e familiare è fonte d’insicurezza e di perdita di fiducia nel seno stesso alla società. Certo, alcuni sostengono che il matrimonio non venga per questo sminuito, ma ciò provoca e proprio indebolimento delle norme. Per la coesione del tessuto sociale, lo Stato ha più interesse a valorizzare il matrimonio rispetto alla convivenza o ai pacs.
* sacerdote francese, psicanalista e saggista
matrimonio” di Tony Anatrella, sacerdote francese, psicanalista e saggista.
Le unioni di fatto non sono nuove nella storia, ma è solo recentemente che la coabitazione fuori dal matrimonio si è sviluppata come scelta deliberata.
(…) Ma, di fronte all’aumento dei divorzi, gli animi sono stati invasi da un timore cui fanno eco oggi gli interrogativi di numerosi giovani che esitano ad impegnarsi: la paura di sbagliare persona, di dover‘“rompere” un giorno e di vivere un fallimento affettivo rende i partner esitanti davanti al matrimonio. (…)
LA LEGGE FA PAURA
I conviventi sono in una posizione del tutto ambivalente: non domandano nulla alla società e rifiutano qualsiasi impegno nei suoi confronti.
Eppure, desiderano vedersi concedere gli stessi diritti delle persone sposate, a dispetto delle ricadute sul tessuto sociale. Invece di privilegiare il senso dell’impegno, che dovrebbe essere il solo tenuto in considerazione dalla società, il legislatore legifera in nome dei sentimenti: ciò sembra aleatorio e troppo fragile per assicurare la coerenza del tessuto sociale.
In un tal clima, non stupisce di veder emergere le più svariate richieste di riconoscimento di “unioni” che poggiano sui soli sentimenti esistenti tra due persone.
(…) Riducendo il matrimonio al semplice rango di un contratto tra gli altri, ciò che non è, il legislatore livella tutte le situazioni. Ora, se tutte le situazioni si equivalgono, niente più ha valore. Nessuno è obbligato a sposarsi e spetta a ciascuno organizzarsi l’esistenza a piacere. Ma come si può far credere che psicologicamente e socialmente il matrimonio e la convivenza abbiano lo stesso valore? Una società nella quale l’idea dell’impegno è regresso, è malata.
Non dobbiamo aver paura dei “paroloni”: ci vogliono uomini e donne che si sposano e durano insieme per assicurare la speranza e la continuità del tessuto sociale. Quando un uomo e una donna si sposano, donano gioia e portano vita intorno a sé. Dobbiamo avere l’onestà di ammettere che l’annuncio di una convivenza o di un‘pacs non provoca lo stesso effetto.
UN AMORE PIÙ AUTENTICO?
Cosa sta succedendo oggi? La convivenza tende a rimpiazzare in parte il fidanzamento di una volta. I partner vanno a vivere insieme nella speranza di un impegno definitivo; altri invece si stabilizzano nella convivenza per restare liberi di fronte alla società.
Hanno l’impressione che la relazione fondata unicamente sui sentimenti sarà più autentica del matrimonio. Strana ipotesi…
(…) In realtà, la convivenza svolge molto spesso un ruolo illusorio nella relazione. Il fatto di non prendere un impegno pubblico permette di evitare di porsi alcune domande sulla natura dei propri sentimenti o sulla propria storia personale, sul moltiplicarsi di simili avventure infeconde, su cosa ne sia delle immagini parentali di ciascun partner, sulla propria sessualità, sulle proprie inibizioni e rimozioni, sulla propria educazione, sui valori di vita da concretizzare insieme; in breve, sul senso che l’altro rappresenta per sé e su ciò che si desidera costruire e finalizzare
insieme. Una relazione che non presuppone un impegno nel tempo di fronte alla società non è, in sé, più autentica di quella vissuta da due persone sposate.
Anzi, è la relazione vissuta nella convivenza che ha molte più possibilità di essere inautentica, nella misura in cui può servire a dissimulare delle verità che non si vogliono sentire. Un giorno, però, la questione dl matrimonio si pone anche nella coppia di conviventi. I partner non possono, infatti, evitare le domande sull’amore che li lega, sul loro impegno reciproco, e infine sulla durata, che è attinente a una relazione autentica. È il momento in cui compare il bambino - in cui cioè un elemento “terzo” adduce la prova e convalida la qualità e l’identità della relazione -. Come il bambino trova la prova dell’amore che i genitori nutrono per lui nell’amore coniugale, gli sposi trovano la dimostrazione del loro amore nell’impegno matrimoniale: “La prova del mio amore è di chiederti di sposarmi”, possono dirsi. La volontà di sposarsi è la sola prova che si possa dare a se stessi e offrire all’altro: quella di impegnarsi in un progetto comune (…).
UNA SOCIETÀ CHE NON PROTEGGE IL MATRIMONIO
Riconoscendo alle unioni di fatto uno statuto istituzionale simile a quello del matrimonio e della famiglia, la nostra società corre dei‘rischi assurdi.
Nell’ordine dei principi, bisogna lasciare all’intelligenza la distinzione tra interesse pubblico e interesse privato. Nel caso dell’interesse pubblico, la società e le autorità hanno il dovere di proteggerlo e promuoverlo. Nel caso dell’interesse privato, lo Stato deve limitarsi a garantire la libertà. L’interesse pubblico è di competenza del diritto pubblico, mentre quanto attiene agli interessi privati deve essere lasciato all’ambito privato. Il matrimonio e la famiglia assumono un interesse pubblico, per il fatto che rappresentano la cellula base della società e dello Stato. Come tali, devono essere riconosciuti e protetti.
Eppure, questa non è la direzione assunta dal potere politico. La famiglia, cellula base della società, rischia di essere, giuridicamente parlando, un guscio vuoto(…). Non è che una qualunque unione possa diventare una famiglia: il fatto che due persone vivano insieme non riveste necessariamente un interesse pubblico.
Nel matrimonio, un uomo e una donna costituiscono tra loro un patto per tutta la vita, ordinato per sua stessa natura al bene degli sposi, alla procreazione dei bambini e alla loro educazione. A differenza delle unioni di fatto, essi si prendono pubblicamente e formalmente degli impegni, e si assumono delle responsabilità di cui potranno anche rispondere davanti a un tribunale. L’instabilità affettiva delle coppie che rompono il legame coniugale e familiare è fonte d’insicurezza e di perdita di fiducia nel seno stesso alla società. Certo, alcuni sostengono che il matrimonio non venga per questo sminuito, ma ciò provoca e proprio indebolimento delle norme. Per la coesione del tessuto sociale, lo Stato ha più interesse a valorizzare il matrimonio rispetto alla convivenza o ai pacs.
* sacerdote francese, psicanalista e saggista
Leggi tutti gli articoli di questo numero:
ANNO XXI - N.12
Natale amore di Dio
Il mistero del Natale ci richiama l’enciclica del Pontefice Benedetto XVI: “Dio è amore”. Natale è questa straordinaria rivelazione: Dio assume il volto umano, si china sull’uomo ferito e derubato che giace al margine della strada. È sorprendente che, oggi,ideologie prevaricatrici tentino di dissipare questa verità, arrivando all’apoteosi dell’odio. L’odio tenta di farsi norma di storia e di diritto. Un alunno non cristiano, arriva a pretendere che si cancelli la verità dolcissima del Natale del Signore. L’umanità ha bisogno della verità di Dio che nasce e muore per l’umanità. Se Natale afferma il valore della trascendenza di Dio, afferma pure la grandezza dell’uomo. Natale è amore,è solidarietà. La carità nella vita della Chiesa però non si traduce in semplici forme di assistenza sociale: la carità che offre la Chiesa di Dio è tanto di più.
La carità ha lo scopo di comunicare l’amore di Dio e di renderlo visibile.
Pare si sia infiltrata l’idea che non è necessario credere per vivere la carità: la
società è portata a comunicare carità! Questo è tanto, ma non tutto. In passato la carità era compito esclusivo della Chiesa con una rete di iniziative commoventi. Lo dice la sua storia. Oggi, si vorrebbe che la carità venisse promossa solo in collaborazione con le istituzioni pubbliche. La collaborazione tra lo Stato e la Chiesa è un grande traguardo, ma l’esperienza dice che solo la carità della Chiesa va al cuore dell’uomo. Da lassù nasce la nostra operosità, perché “Dio, è amore”: è Natale.
Leggi tutti gli articoli di questo numero:
ANNO XXI - N.12
Nel Mese
Come ogni anno, il 1° novembre, ci portammo in pellegrinaggio a Pompei per deporre ai piedi della Madonna i propositi di bene e di preghiera maturati nel mese di ottobre che ha assunto un tono di tenera devozione e affetto alla Vergine il cui simulacro è presente da 70 anni nella nostra chiesa parrocchiale.
Molto interessanti le riflessioni offerteci dal parroco nella commemorazione dei Defunti; essi sono più vivi che mai perché nella sfera dell’amore di Dio. Non quindi una messa “per” i defunti, ma “con” i defunti perché presenti come Lazzaro al convito eucaristico preparato per Gesù che viene a servirci offrendoci i suoi doni della Parola e del Pane. Come impegno prioritario si sono avuti incontri con genitori e padrini dei ragazzi che il 25 novembre hanno ricevuto la Cresima.
Tra gli altri impegni, quelli della adorazione mensile, della catechesi ai giovani e
giovanissimi ogni lunedì sera e la Convivenza di riporto per le Comunità neo-catecumenali presenti in parrocchia. Il dovuto rilievo è stato poi dato al triduo in preparazione alla festa di Cristo Re, titolare della nostra Comunità e quest’anno c’è stata regalata la presenza del Vescovo don Gino che durante la
Messa pontificale ha amministrato la Cresima a 23 ragazzi di 3^ media.
I giovani hanno voluto animare la festa del titolare della parrocchia con una serata di fraternità, di gioia e condivisione.
Intanto si è tenuto l’incontro con gli adulti di A.C.I., mentre si va intensificando la qualificazione del gruppo dei ministranti e il Coro dei cantori che animano di solito la liturgia: un lavoro silenzioso ma tanto benefico soprattutto a livello formativo ed educativo. Ai giovanissimi si è presentata la recita delle Lodi e dei Vespri,in modo da potersi accostare alla Parola e iniziare al pregare con la recita dei Salmi.
Il 29 novembre si è dato inizio alla novena dell’Immacolata che si concluderà con le solenni Quarantore e la celebrazione del XXV di fondazione del gruppo parrocchiale della Riparazione Eucaristica fondato da Maria Pellegrini,in quell’epoca responsabile cittadina della stessa associazione.
Luca
Molto interessanti le riflessioni offerteci dal parroco nella commemorazione dei Defunti; essi sono più vivi che mai perché nella sfera dell’amore di Dio. Non quindi una messa “per” i defunti, ma “con” i defunti perché presenti come Lazzaro al convito eucaristico preparato per Gesù che viene a servirci offrendoci i suoi doni della Parola e del Pane. Come impegno prioritario si sono avuti incontri con genitori e padrini dei ragazzi che il 25 novembre hanno ricevuto la Cresima.
Tra gli altri impegni, quelli della adorazione mensile, della catechesi ai giovani e
giovanissimi ogni lunedì sera e la Convivenza di riporto per le Comunità neo-catecumenali presenti in parrocchia. Il dovuto rilievo è stato poi dato al triduo in preparazione alla festa di Cristo Re, titolare della nostra Comunità e quest’anno c’è stata regalata la presenza del Vescovo don Gino che durante la
Messa pontificale ha amministrato la Cresima a 23 ragazzi di 3^ media.
I giovani hanno voluto animare la festa del titolare della parrocchia con una serata di fraternità, di gioia e condivisione.
Intanto si è tenuto l’incontro con gli adulti di A.C.I., mentre si va intensificando la qualificazione del gruppo dei ministranti e il Coro dei cantori che animano di solito la liturgia: un lavoro silenzioso ma tanto benefico soprattutto a livello formativo ed educativo. Ai giovanissimi si è presentata la recita delle Lodi e dei Vespri,in modo da potersi accostare alla Parola e iniziare al pregare con la recita dei Salmi.
Il 29 novembre si è dato inizio alla novena dell’Immacolata che si concluderà con le solenni Quarantore e la celebrazione del XXV di fondazione del gruppo parrocchiale della Riparazione Eucaristica fondato da Maria Pellegrini,in quell’epoca responsabile cittadina della stessa associazione.
Luca
Leggi tutti gli articoli di questo numero:
ANNO XXI - N.12
Iscriviti a:
Post (Atom)