Se lo Stato è latitante... la parrocchia no !
Miei Cari,
mentre mi soffermavo a preparare l’omelia per la domenica 15° dell’anno, circa l’invio dei discepoli da parte di Gesù, mi è venuto in mente un episodio che ha turbato la serenità dei nostri ragazzi durante l’esperienza dell’Oratorio estivo, attraverso il quale essi fraternizzano, pregano, si divertono, fanno esperienza della vita bella vissuta con Gesù nella prospettiva del loro domani. Abbiamo imparato a contentarci delle poche strutture che abbiamo e degli spazi che mancano, anche se non mi è mai venuto meno il coraggio di pregare perché i buoni vicini della parrocchia imparino a gioire per quella vivacità innocente e buona di ragazzi che comunque vengono sottratti ai pericoli della strada nei mesi estivi. E’ intervenuto fortemente il papà di alcuni bambini: se lo Stato è latitante in ordine all’educazione dei nostri figli, la parrocchia deve farlo! Il parroco è abbastanza convinto che le ragioni per cui Dio vuole che la missione venga fatta nella povertà sono probabilmente queste: l’assenza dei mezzi, l’abbandono totale alla Provvidenza del Signore che rende liberi, che lascia gli altri liberi di accogliere e di rifiutare, perché l’annuncio sia più puro e meno condizionato. La povertà dei mezzi inoltre e quindi dei pochi spazi che la nostra parrocchia ha perché trovasi nel centro della città, fa risplendere la forza intrinseca della Parola di Dio: non siamo noi e men che meno le nostre strutture, gli agenti della conversione e della santificazione del mondo. Così dopo la turbativa della festa dei nostri ragazzi, comunque chiusasi rapidamente dopo un intervento affatto cristiano di un signore che lamentava il chiasso prodotto da essi, contrariamente alla spirituale letizia di una signora ultranovantenne che nota e apprezza il lavoro parrocchiale a favore dei gruppi dei giovani, dei fanciulli e delle famiglie, il parroco ha pensato di raccogliere la vivace comitiva in chiesa dopo il trauma subito dell’intervento spropositato. Dopo aver pregato mi è venuto di raccontare loro un episodio della vita di don Bosco quando scarseggiava di luoghi per far giocare i suoi ragazzi. Lo attinsi da un libro di Eugenio Pilla: “Don Bosco che ride”. L’autore riportava tra gli altri l’episodio di don Bosco che aveva fatto sostare i fanciulli in un prato confinante con la tenuta di una marchesa di Torino. Costei ammoniva il Santo per lo schiamazzo prodotto e diceva anzi che perfino le sue galline non facevano più uova per la incontrollata vivacità dello stuolo approdato lì con don Bosco. Il grande Leader, con amabile dolcezza, assicurava la marchesa che per l’anno a venire ciò non sarebbe accaduto. Sì. L’anno che venne registrò la morte della marchesa. Intelligenza e vivacità dei bambini! Una piccola, che ha frequentato la 2^ elementare interviene: “Don Vincenzo, allora anche quel signore morirà?” Intervengo subito. No. Gesù non è per la morte ma perché ci convertiamo e viviamo diventando buoni. Anche questo insegnamento credo abbia fatto breccia della vivace e simpaticissima famiglia dei ragazzi che hanno fatto l’esperienza dell’oratorio estivo di quest’anno.
Buon proseguimento delle vacanze.
don Vincenzo
QUELLA SINTESI LUMINOSA CHE CHIAMIAMO TRINITÀ
di NICHI VENDOLA
Le verità dogmatiche sono rocce impervie da scalare, abissi semantici da sondare, voli vorticosi nei cieli della fede, della filosofia, dell’etica. Forse per questo sono diventate ritmo, rito, mito. Le abbiamo declamate più che proclamate, come formule magiche o litanie cerebrali. Persino ebbri della loro mistica oscurità. Don Tonino, il meno “dogmatico” dei credenti, non si concede (non ci concede) al disco incantato del formalismo religioso, alla cantilena fideistica, all’abracadabra spiritualistico, quando prende di petto il più ostico, il più ermetico, il più inquietante dei dogmi: quello della Santissima Trinità. Non lo proclama, lo penetra, lo mette al microscopio, ne rivela il senso e l’antologia, lo mette in trasparenza ponendosi al confine tra cielo e terra, tra storia e salvezza. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: in questo nome ondulare e molteplice la Trinità non è una secessione dalla figura unitaria del Dio vivente, non è una frammentazione, non è una ferita nel corpo di Dio, ma è viceversa la spiegazione e il dispiegamento di Dio che, nel suo essere oltre la nostra ragionevolezza (spesso assai irragionevole), è un principio vorticoso, è la coincidenza di ciò che genera e di ciò che viene generato. È una filiazione che si avvita al rotolo dell’infinito. Padre, Figlio, Spirito Santo. Come a voler significare che solo il molteplice può illuminare la bellezza e la verità di ciò che è Uno, cioè Dio. Uno e trino, appunto. Una figura che non cumula ma moltiplica. Unitaria è la sintesi, che è forza cinetica, moto ondoso, “ulteriorità”; che è la scansione solenne e divina del processo di generazione: la genitorialità partorisce dall’utero celeste ciò che non finisce, il punto di fusione tra il futuro e l’eterno. Chi è padre e chi è figlio? Nel gioco delle nostre esistenze siamo esperti di improvvisi ribaltamenti, come quando si viene sbalzati nel tempo, e si invertono i ruoli intergenerazionali: quando cioè diventi il genitore del tuo genitore, alla sua estrema vecchiezza lo accogli con la tenerezza dovuta a tutte le infanzie del mondo, lo riponi nel tuo grembo, come se si arrotolasse all’incontrario il cordone ombelicale, fino a sentirti pronto a partorire chi ti ha partorito. Credo che mai, come in questi scambi tra padri e figli e tra madri e figlie, l’amore sia capace di mettere in equilibrio perfetto la bellezza e il dolore. Quando si perde il proprio statuto di figlio si ha sempre il timor panico e la vertigine dell’abbandono, del vuoto protettivo. Ciascuno ha paura di finire messo in croce, di sentire lo strazio dei chiodi e delle spine, di essere ostaggio della “banalità del male” che muta il delitto in burocrazia, di essere oltraggiato e spezzato senza che questo sacrificio possa rompere il silenzio del Dio Padre. La solitudine di Cristo morente è ciò che rende autentico il mistero dell’incarnazione, la “follia della Croce” è la finestra che cambia per sempre il nostro sguardo su Gerusalemme: città celeste ma anche mattatoio terrestre. Sempre si resta soli sulla croce, questo è il cuore della condizione umana. E persino colui che annuncia il Regno dei Cieli lo fa, in solitudine estrema, sudando e sanguinando e agonizzando e morendo. Non c’è lettera di raccomandazione dall’alto che lo salvi. La famiglia cristiana è incompatibile col familismo amorale che reclama salvacondotti e corsie preferenziali. E la famiglia umana non può essere mutilata della sua dimensione multiculturale, della pluralità di storie e sensibilità che ne innervano l’esistenza, di quella diversità che non è minaccia ma promessa, che non è pericolo ma occasione di ricchezza. Solo a don Tonino Bello poteva riuscire così preziosa e cristallina l’opera di traduzione del dogma trinitario in teologia degli oppressi, inchiodarci sul legno delle nostre pigrizie e far rotolare il masso dal sepolcro delle nostre ipocrisie. Quel Dio leggero e di facili costumi che vive come fiction televisiva e come circuito appaltatorio dei “sacri affari” non abita qui, nel vocabolario del Vescovo che scrutò il volto del risorto tra le rughe e i cenci di un vecchio (barbone, alcolista, tossico: nessuna etichetta rende merito alla regalità della condizione ultima...). I pensieri dell’esegeta vetero-testamentario si fanno ali d’angelo, poesia, preghiera. Ecco che la fede interroga e scuote la storia umana, ecco che il dogma scivola giù dalle nuvole e si impasta alla quotidianità, diviene lente per osservare ogni risvolto di ogni volto, diviene educazione alle differenze, diviene l’ostia che santifica ogni bocca affamata di verità. La scrittura di don Tonino sembra spinta dalla necessità impellente di distillare dalla contemplazione di Dio - di quel Dio vivente che danza la vita e che propone la misura di un amore senza misura - una goccia di conversione: non un facile galateo perbenista o una morale bigotta bensì una inesorabile spinta verso l’esodo. L’esodo da sé, dalle proprie pigrizie, dal formalismo di una spiritualità frigida e superficiale, dalle piccole patrie dei miti identitari, dalle sabbie mobili dell’etnocentrismo, dalle patetiche performances di un individualismo mercantile e spesso osceno. L’esodo dalla guerra come paradigma della relazione con l’altro/altra. Una fuga, un cammino, una morte, un tirocinio al deserto, un parto. L’esodo dalla cronaca del peccato alla storia della salvezza. Fino a intuire, non dico vedere, ma almeno a intuire quel passo di danza, quella bellezza che non è una velina, quella sintesi luminosa che chiamiamo Trinità. Fino a celebrare la comunione delle comunioni: cioè la pace. Don Tonino ci regala sempre un lume, con questa sua scrittura sorgiva e battesimale, per scorgere aurore non ancora nate. Ecco. A quel punto dell’orizzonte, a quel punto del mistero, a quel punto della trasparenza, troveremo le parole per sapere e per capire il senso di tutta l’oscurità che ci opprime e di tutta la luce che ancora ci manca.
Le verità dogmatiche sono rocce impervie da scalare, abissi semantici da sondare, voli vorticosi nei cieli della fede, della filosofia, dell’etica. Forse per questo sono diventate ritmo, rito, mito. Le abbiamo declamate più che proclamate, come formule magiche o litanie cerebrali. Persino ebbri della loro mistica oscurità. Don Tonino, il meno “dogmatico” dei credenti, non si concede (non ci concede) al disco incantato del formalismo religioso, alla cantilena fideistica, all’abracadabra spiritualistico, quando prende di petto il più ostico, il più ermetico, il più inquietante dei dogmi: quello della Santissima Trinità. Non lo proclama, lo penetra, lo mette al microscopio, ne rivela il senso e l’antologia, lo mette in trasparenza ponendosi al confine tra cielo e terra, tra storia e salvezza. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: in questo nome ondulare e molteplice la Trinità non è una secessione dalla figura unitaria del Dio vivente, non è una frammentazione, non è una ferita nel corpo di Dio, ma è viceversa la spiegazione e il dispiegamento di Dio che, nel suo essere oltre la nostra ragionevolezza (spesso assai irragionevole), è un principio vorticoso, è la coincidenza di ciò che genera e di ciò che viene generato. È una filiazione che si avvita al rotolo dell’infinito. Padre, Figlio, Spirito Santo. Come a voler significare che solo il molteplice può illuminare la bellezza e la verità di ciò che è Uno, cioè Dio. Uno e trino, appunto. Una figura che non cumula ma moltiplica. Unitaria è la sintesi, che è forza cinetica, moto ondoso, “ulteriorità”; che è la scansione solenne e divina del processo di generazione: la genitorialità partorisce dall’utero celeste ciò che non finisce, il punto di fusione tra il futuro e l’eterno. Chi è padre e chi è figlio? Nel gioco delle nostre esistenze siamo esperti di improvvisi ribaltamenti, come quando si viene sbalzati nel tempo, e si invertono i ruoli intergenerazionali: quando cioè diventi il genitore del tuo genitore, alla sua estrema vecchiezza lo accogli con la tenerezza dovuta a tutte le infanzie del mondo, lo riponi nel tuo grembo, come se si arrotolasse all’incontrario il cordone ombelicale, fino a sentirti pronto a partorire chi ti ha partorito. Credo che mai, come in questi scambi tra padri e figli e tra madri e figlie, l’amore sia capace di mettere in equilibrio perfetto la bellezza e il dolore. Quando si perde il proprio statuto di figlio si ha sempre il timor panico e la vertigine dell’abbandono, del vuoto protettivo. Ciascuno ha paura di finire messo in croce, di sentire lo strazio dei chiodi e delle spine, di essere ostaggio della “banalità del male” che muta il delitto in burocrazia, di essere oltraggiato e spezzato senza che questo sacrificio possa rompere il silenzio del Dio Padre. La solitudine di Cristo morente è ciò che rende autentico il mistero dell’incarnazione, la “follia della Croce” è la finestra che cambia per sempre il nostro sguardo su Gerusalemme: città celeste ma anche mattatoio terrestre. Sempre si resta soli sulla croce, questo è il cuore della condizione umana. E persino colui che annuncia il Regno dei Cieli lo fa, in solitudine estrema, sudando e sanguinando e agonizzando e morendo. Non c’è lettera di raccomandazione dall’alto che lo salvi. La famiglia cristiana è incompatibile col familismo amorale che reclama salvacondotti e corsie preferenziali. E la famiglia umana non può essere mutilata della sua dimensione multiculturale, della pluralità di storie e sensibilità che ne innervano l’esistenza, di quella diversità che non è minaccia ma promessa, che non è pericolo ma occasione di ricchezza. Solo a don Tonino Bello poteva riuscire così preziosa e cristallina l’opera di traduzione del dogma trinitario in teologia degli oppressi, inchiodarci sul legno delle nostre pigrizie e far rotolare il masso dal sepolcro delle nostre ipocrisie. Quel Dio leggero e di facili costumi che vive come fiction televisiva e come circuito appaltatorio dei “sacri affari” non abita qui, nel vocabolario del Vescovo che scrutò il volto del risorto tra le rughe e i cenci di un vecchio (barbone, alcolista, tossico: nessuna etichetta rende merito alla regalità della condizione ultima...). I pensieri dell’esegeta vetero-testamentario si fanno ali d’angelo, poesia, preghiera. Ecco che la fede interroga e scuote la storia umana, ecco che il dogma scivola giù dalle nuvole e si impasta alla quotidianità, diviene lente per osservare ogni risvolto di ogni volto, diviene educazione alle differenze, diviene l’ostia che santifica ogni bocca affamata di verità. La scrittura di don Tonino sembra spinta dalla necessità impellente di distillare dalla contemplazione di Dio - di quel Dio vivente che danza la vita e che propone la misura di un amore senza misura - una goccia di conversione: non un facile galateo perbenista o una morale bigotta bensì una inesorabile spinta verso l’esodo. L’esodo da sé, dalle proprie pigrizie, dal formalismo di una spiritualità frigida e superficiale, dalle piccole patrie dei miti identitari, dalle sabbie mobili dell’etnocentrismo, dalle patetiche performances di un individualismo mercantile e spesso osceno. L’esodo dalla guerra come paradigma della relazione con l’altro/altra. Una fuga, un cammino, una morte, un tirocinio al deserto, un parto. L’esodo dalla cronaca del peccato alla storia della salvezza. Fino a intuire, non dico vedere, ma almeno a intuire quel passo di danza, quella bellezza che non è una velina, quella sintesi luminosa che chiamiamo Trinità. Fino a celebrare la comunione delle comunioni: cioè la pace. Don Tonino ci regala sempre un lume, con questa sua scrittura sorgiva e battesimale, per scorgere aurore non ancora nate. Ecco. A quel punto dell’orizzonte, a quel punto del mistero, a quel punto della trasparenza, troveremo le parole per sapere e per capire il senso di tutta l’oscurità che ci opprime e di tutta la luce che ancora ci manca.
PREGHIERA
Spirito Santo, dono del Cristo morente,
fa’ che la Chiesa dimostri di averti ereditato davvero.
Trattienila ai piedi di tutte le croci.
Quelle dei singoli e quelle dei popoli.
Ispirale parole e silenzi,
perché sappia dare significato al dolore degli uomini.
Così che ogni povero comprenda che non è vano il suo pianto,
e ripeta con il salmo: «Le mie lacrime, Signore, nell’otre tuo raccogli».
Rendi la Chiesa protagonista infaticabile di deposizione dal patibolo,
perché i corpi schiodati dei sofferenti trovino pace sulle sue ginocchia di madre.
In quei momenti poni sulle sue labbra canzoni di speranza.
E donale di non arrossire mai della Croce,
ma di guardare ad essa come all’antenna della sua nave,
le cui vele tu gonfi di brezza e spingi con fiducia lontano.
Insegnami, allora, a librarmi con Te, Signore.
Perché vivere non è trascinare la vita,
non è strapparla, non è rosicchiarla,
vivere è abbandonarsi come un gabbiano all’ebbrezza del vento.
Vivere è assaporare l’avventura della libertà.
Vivere è stendere l’ala, l’unica ala,
con la fiducia di chi sa di avere nel volo un partner grande come Te.
don Tonino Bello
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ANNO XXVI - N.308
“ALLA SCUOLA DEL VANGELO: EDUCARSI PER EDUCARE”
PROGETTO PASTORALE PER LA NOSTRA DIOCESI 2012-2016
Il progetto pastorale è ambizioso. Educarsi per educare è, infatti, il progetto di tutta una vita, un impegno che va ben oltre il quadriennio a venire. Potremmo anche dire che “vivere è educarsi ed educarsi è vivere”. Educarsi alla vita insieme, alla vita di comunità, di coppia, alle relazioni che nascono nell’ambito del lavoro, in quello politico. Educarsi all’amore, alla carità, all’agape come dimensione che connota la persona umana e ne segna il destino. Una vita senza amore, diseducata all’amore, orientata da egoismi più o meno sottili (che si celano anche nell’ambito ecclesiastico), è una vita anti-evangelica. Il deus di questo tipo di esistenza è il signore di ogni divisione e di ogni morte, il diavolo, colui che si oppone al Cristo della misericordia, della compassione, del perdono, della vita. Compito precipuo del cristiano, quindi, è dare vita, effondere vita, compartire speranza, compiere il prodigio di testimoniare la vita oltre la morte in un contesto sociale e culturale marcato a fuoco dal cinismo, dal nichilismo gaio e spensierato, i cui orizzonti sono i soliti: sesso, soldi, sopraffazione. Sopraffazione del forte sul debole, del maschio sulla donna e della femmina sull’uomo, dei ricchi sui poveri, con lo strapotere dei pochi sui molti. Tutta la vita cristiana ruota intorno all’amore, all’educazione alla carità che nulla chiede per sé e tutto dona. Il progetto pastorale varato dal nostro Vescovo richiede un impegno non occasionale da parte delle comunità parrocchiali, invitate ad immaginare percorsi di formazione all’amore. Ma si può apprendere ad amare? Ritengo di sì, che si possa compiere il salto da una visione egocentrata ad una post-egoica, in cui il nucleo fondamentale dell’essere umano è sottratto ai flutti dell’odio, del rancore, del giudizio e restituito alla pace del Cristo, che supera quella che il mondo può dare. È un lavoro interiore. Ed è un travaglio intimo staccarsi dall’utero dell’insignificanza per aderire ad un progetto rivoluzionario qual è quello dell’amore. Esso implica che si compia un percorso, che si recida il cordone ombelicale con un passato insipido, vacuo, privo di effervescenze vitali spirituali. La vita cristiana è azione contemplativa, nel senso che più lo spirito diviene capace di contemplazione più si compie il transito dall’inazione all’azione. La fede cristiana non è un progetto borghese per i borghesi. La fede nel Cristo è azione per la liberazione dell’umanità dalle pustole del male, che impedisce all’uomo di scorgere nel suo prossimo i tratti somatici della fratellanza universale. Il fulcro del male e del peccato sta infatti nel credersi altro dagli altri, concepire l’altro come lontano da sé. Smarrite le coordinate di questa nostra comune provenienza, si smarrisce il senso della vita e, nel ripiegarsi su di sé in un disperato tentativo di salvazione affidato alle cose del mondo, ci si intrappola nel budello dell’ego distorto e mortifero, si viene catapultati in un labirinto fatto di illusioni e di fallaci libertà. Il progetto educativo punta a sostenere l’attualità salvifica del messaggio del Cristo agli uomini ed alle donne del nostro tempo. Difatti, come si testimonia la resurrezione se noi per primi non conduciamo una vita da risorti? Come si testimonia l’amore di Dio per noi, se noi non siamo capaci di vivere l’amore fra di noi? I credenti portano questa responsabilità sulle loro spalle: rendere tangibile l’amore di Dio non a chiacchiere ma con le parole e le opere. Se non lo facessimo, saremmo testimoni di una fede morta e di un dio pagano. Salvatore Bernocco
Il progetto pastorale è ambizioso. Educarsi per educare è, infatti, il progetto di tutta una vita, un impegno che va ben oltre il quadriennio a venire. Potremmo anche dire che “vivere è educarsi ed educarsi è vivere”. Educarsi alla vita insieme, alla vita di comunità, di coppia, alle relazioni che nascono nell’ambito del lavoro, in quello politico. Educarsi all’amore, alla carità, all’agape come dimensione che connota la persona umana e ne segna il destino. Una vita senza amore, diseducata all’amore, orientata da egoismi più o meno sottili (che si celano anche nell’ambito ecclesiastico), è una vita anti-evangelica. Il deus di questo tipo di esistenza è il signore di ogni divisione e di ogni morte, il diavolo, colui che si oppone al Cristo della misericordia, della compassione, del perdono, della vita. Compito precipuo del cristiano, quindi, è dare vita, effondere vita, compartire speranza, compiere il prodigio di testimoniare la vita oltre la morte in un contesto sociale e culturale marcato a fuoco dal cinismo, dal nichilismo gaio e spensierato, i cui orizzonti sono i soliti: sesso, soldi, sopraffazione. Sopraffazione del forte sul debole, del maschio sulla donna e della femmina sull’uomo, dei ricchi sui poveri, con lo strapotere dei pochi sui molti. Tutta la vita cristiana ruota intorno all’amore, all’educazione alla carità che nulla chiede per sé e tutto dona. Il progetto pastorale varato dal nostro Vescovo richiede un impegno non occasionale da parte delle comunità parrocchiali, invitate ad immaginare percorsi di formazione all’amore. Ma si può apprendere ad amare? Ritengo di sì, che si possa compiere il salto da una visione egocentrata ad una post-egoica, in cui il nucleo fondamentale dell’essere umano è sottratto ai flutti dell’odio, del rancore, del giudizio e restituito alla pace del Cristo, che supera quella che il mondo può dare. È un lavoro interiore. Ed è un travaglio intimo staccarsi dall’utero dell’insignificanza per aderire ad un progetto rivoluzionario qual è quello dell’amore. Esso implica che si compia un percorso, che si recida il cordone ombelicale con un passato insipido, vacuo, privo di effervescenze vitali spirituali. La vita cristiana è azione contemplativa, nel senso che più lo spirito diviene capace di contemplazione più si compie il transito dall’inazione all’azione. La fede cristiana non è un progetto borghese per i borghesi. La fede nel Cristo è azione per la liberazione dell’umanità dalle pustole del male, che impedisce all’uomo di scorgere nel suo prossimo i tratti somatici della fratellanza universale. Il fulcro del male e del peccato sta infatti nel credersi altro dagli altri, concepire l’altro come lontano da sé. Smarrite le coordinate di questa nostra comune provenienza, si smarrisce il senso della vita e, nel ripiegarsi su di sé in un disperato tentativo di salvazione affidato alle cose del mondo, ci si intrappola nel budello dell’ego distorto e mortifero, si viene catapultati in un labirinto fatto di illusioni e di fallaci libertà. Il progetto educativo punta a sostenere l’attualità salvifica del messaggio del Cristo agli uomini ed alle donne del nostro tempo. Difatti, come si testimonia la resurrezione se noi per primi non conduciamo una vita da risorti? Come si testimonia l’amore di Dio per noi, se noi non siamo capaci di vivere l’amore fra di noi? I credenti portano questa responsabilità sulle loro spalle: rendere tangibile l’amore di Dio non a chiacchiere ma con le parole e le opere. Se non lo facessimo, saremmo testimoni di una fede morta e di un dio pagano. Salvatore Bernocco
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ANNO XXVI - N.308
FIGLI DI UN PADRE ASSENTE
L’assenza del padre in casa condiziona significativamente il comportamento degli adolescenti in un maggior uso di alcol e marijuana. Crisi di identità: i ragazzi che crescono in casa dove il padre è assente hanno più probabilità, rispetto ai ragazzi, il cui padre è presente, ad avere più problemi a stabilire un appropriato ruolo e identità sessuale di genere, sono più portati ad una sessualità precoce, che porta loro ad un disagio psichico, non essendo ancora in grado, di cogliere il significato profondo della loro sessualità, confusa e intesa soltanto come genitalità, non li aiuta a comunicare, si incupiscono, si chiudono in se stessi. La figura del padre, presenza affettuosa, e determinata, trasferisce nel figlio, sicurezza, autostima, capacità relazionali connotate di tanta sicurezza, gli permette di guardarsi attorno, scoprendone il bello, il fascino del vivere, rapportandosi agli altri, intessendo un tessuto di amicizie che gli permettono di assaporare la vita. La droga invece, dice: solitudine, noia, rabbia con se stessi e con il mondo che lo circonda. Un buon padre è un uomo che innanzitutto esprime amore per la donna nel cui corpo i suoi figli stanno venendo al mondo: affetto, attenzione, considerazione e rispetto in queste fasi sono la base relazionale per un futuro più felice dell’intera famiglia. Dopo il parto, l’evento della nascita stimola nell’organismo del padre un sensibile aumento dell’ormone detto ossitocitina, nel momento in cui un uomo si trova un bambino tra le braccia inizia una vera e propria relazione fisica e psichica a catena. L’ossitocitina, infatti va a stimolare l’amigdala, un’area del cervello che favorisce la produzione e il rinforzo dei legami di attaccamento, affettivi e relazionali tra esseri umani. Il padre è stimolato a manifestare nei confronti del bambino particolari sentimenti, tipici del papà, che non sono quelli della mamma: stimola il figlio all’esplorazione dell’ambiente, dirige la sua attenzione verso gli oggetti, le altre persone, lo rassicura in particolari attività ludiche, come il lancio dalle braccia del padre verso l’alto, lo incoraggia a raggiungere la posizione seduta. Questo gli dà un senso di sicurezza, presupposto fondamentale per la crescita dell’autostima e poi del successo nella vita. Determina la qualità dello stile di socializzazione che il figlio, anche nelle età successive, manifesterà con i propri compagni, con la mamma. Va inoltre notato che laddove l’interazione padre e figlio è inconsistente, superficiale, o assente, gli esiti sono decisamente negativi: insuccesso scolastico, disistima, insicurezza, aggressività verso gli altri, incupimento, scarsa comunicabilità, atteggiamenti antisociali, rifiuto delle figure educanti. Per tornare al discorso sulla droga, che diventa per tanti ragazzi la risposta, certamente sbagliata, ma comunque una risposta, ai loro disagi provocati dalla mancanza della figura significativa del padre, occorre oggi tenere presente quello che sostengono le ultime ricerche in materia di droga. Viene dimostrato che non esiste “la droga” leggera e che la canabis, per esempio, mette in grave pericolo la salute mentale, per non parlare poi delle droghe sintetiche. È decisivo per la prevenzione che i genitori là dove ci sono, o almeno la mamma con l’aiuto di qualcuno, ne parlino con i figli dei rischi connessi all’uso di alcol e droga.
• Il genitore dovrà essere attento per accorgersi dell’eventuale uso di sostanze.
• Discutere con loro, con decisione e verità, spiegandone tutti i rischi che quelle sostanze fanno correre.
• A volte subentra la paura, nell’affrontare certi argomenti così impegnativi.
• È urgente, farsi forza, per intervenire in tempo, per evitare poi brutte sorprese.
• Fargli capire che la droga ti imprigiona, che se uno usa una sostanza, in brevissimo tempo la sua unica relazione (il suo amore) è con quella sostanza, e che non c’è più spazio per dare amore a se stessi, ai propri sogni e desideri.
• Il genitore dovrà essere attento per accorgersi dell’eventuale uso di sostanze.
• Discutere con loro, con decisione e verità, spiegandone tutti i rischi che quelle sostanze fanno correre.
• A volte subentra la paura, nell’affrontare certi argomenti così impegnativi.
• È urgente, farsi forza, per intervenire in tempo, per evitare poi brutte sorprese.
• Fargli capire che la droga ti imprigiona, che se uno usa una sostanza, in brevissimo tempo la sua unica relazione (il suo amore) è con quella sostanza, e che non c’è più spazio per dare amore a se stessi, ai propri sogni e desideri.
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ANNO XXVI - N.308
Nel tempo e nello spazio di Dio
Il mese di giugno si caratterizzò per la Messa di Prima Comunione preparata con tanto amore dai catechisti e dal parroco che sollecitò ancora una volta i genitori a trasmettere in modo adeguato e più veritiero la fede ai loro bambini.
Si pensò poi alla festosa chiusura dell’anno catechistico e a quello associativo con la partecipazione ad una serata di festa per i giovani e per il Gruppo famiglia presso Villa Pasqualina. Intanto ci si predispone ad organizzare le giornate dell’Oratorio estivo per i nostri ragazzi più bisognosi che gratuitamente hanno fornito delle stupende giornate di energia sia pure dietro i mugugni di qualcuno che non riesce a recepire i tanti messaggi di bene che possono provenire dai fanciulli che il più delle volte diventano maestri per gli egoisti.
Partecipammo poi alla solennità dell’Ottavario del Corpus Domini e alla processione eucaristica.
Ebbero dunque conclusione gli incontri formativi per le associazioni parrocchiali e
quella del mese al S. Cuore.
Come ogni mese ci fu messa e catechesi per le Associate della Madonna del Buon Consiglio e l’Assemblea straordinaria dei Confratelli di S. Rocco.
Molto ben riuscita poi la festa rionale di S. Maria della Rigliosa.
Luca
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