QUELLA SINTESI LUMINOSA CHE CHIAMIAMO TRINITÀ

di NICHI VENDOLA

Le verità dogmatiche sono rocce impervie da scalare, abissi semantici da sondare, voli vorticosi nei cieli della fede, della filosofia, dell’etica. Forse per questo sono diventate ritmo, rito, mito. Le abbiamo declamate più che proclamate, come formule magiche o litanie cerebrali. Persino ebbri della loro mistica oscurità. Don Tonino, il meno “dogmatico” dei credenti, non si concede (non ci concede) al disco incantato del formalismo religioso, alla cantilena fideistica, all’abracadabra spiritualistico, quando prende di petto il più ostico, il più ermetico, il più inquietante dei dogmi: quello della Santissima Trinità. Non lo proclama, lo penetra, lo mette al microscopio, ne rivela il senso e l’antologia, lo mette in trasparenza ponendosi al confine tra cielo e terra, tra storia e salvezza. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: in questo nome ondulare e molteplice la Trinità non è una secessione dalla figura unitaria del Dio vivente, non è una frammentazione, non è una ferita nel corpo di Dio, ma è viceversa la spiegazione e il dispiegamento di Dio che, nel suo essere oltre la nostra ragionevolezza (spesso assai irragionevole), è un principio vorticoso, è la coincidenza di ciò che genera e di ciò che viene generato. È una filiazione che si avvita al rotolo dell’infinito. Padre, Figlio, Spirito Santo. Come a voler significare che solo il molteplice può illuminare la bellezza e la verità di ciò che è Uno, cioè Dio. Uno e trino, appunto. Una figura che non cumula ma moltiplica. Unitaria è la sintesi, che è forza cinetica, moto ondoso, “ulteriorità”; che è la scansione solenne e divina del processo di generazione: la genitorialità partorisce dall’utero celeste ciò che non finisce, il punto di fusione tra il futuro e l’eterno. Chi è padre e chi è figlio? Nel gioco delle nostre esistenze siamo esperti di improvvisi ribaltamenti, come quando si viene sbalzati nel tempo, e si invertono i ruoli intergenerazionali: quando cioè diventi il genitore del tuo genitore, alla sua estrema vecchiezza lo accogli con la tenerezza dovuta a tutte le infanzie del mondo, lo riponi nel tuo grembo, come se si arrotolasse all’incontrario il cordone ombelicale, fino a sentirti pronto a partorire chi ti ha partorito. Credo che mai, come in questi scambi tra padri e figli e tra madri e figlie, l’amore sia capace di mettere in equilibrio perfetto la bellezza e il dolore. Quando si perde il proprio statuto di figlio si ha sempre il timor panico e la vertigine dell’abbandono, del vuoto protettivo. Ciascuno ha paura di finire messo in croce, di sentire lo strazio dei chiodi e delle spine, di essere ostaggio della “banalità del male” che muta il delitto in burocrazia, di essere oltraggiato e spezzato senza che questo sacrificio possa rompere il silenzio del Dio Padre. La solitudine di Cristo morente è ciò che rende autentico il mistero dell’incarnazione, la “follia della Croce” è la finestra che cambia per sempre il nostro sguardo su Gerusalemme: città celeste ma anche mattatoio terrestre. Sempre si resta soli sulla croce, questo è il cuore della condizione umana. E persino colui che annuncia il Regno dei Cieli lo fa, in solitudine estrema, sudando e sanguinando e agonizzando e morendo. Non c’è lettera di raccomandazione dall’alto che lo salvi. La famiglia cristiana è incompatibile col familismo amorale che reclama salvacondotti e corsie preferenziali. E la famiglia umana non può essere mutilata della sua dimensione multiculturale, della pluralità di storie e sensibilità che ne innervano l’esistenza, di quella diversità che non è minaccia ma promessa, che non è pericolo ma occasione di ricchezza. Solo a don Tonino Bello poteva riuscire così preziosa e cristallina l’opera di traduzione del dogma trinitario in teologia degli oppressi, inchiodarci sul legno delle nostre pigrizie e far rotolare il masso dal sepolcro delle nostre ipocrisie. Quel Dio leggero e di facili costumi che vive come fiction televisiva e come circuito appaltatorio dei “sacri affari” non abita qui, nel vocabolario del Vescovo che scrutò il volto del risorto tra le rughe e i cenci di un vecchio (barbone, alcolista, tossico: nessuna etichetta rende merito alla regalità della condizione ultima...). I pensieri dell’esegeta vetero-testamentario si fanno ali d’angelo, poesia, preghiera. Ecco che la fede interroga e scuote la storia umana, ecco che il dogma scivola giù dalle nuvole e si impasta alla quotidianità, diviene lente per osservare ogni risvolto di ogni volto, diviene educazione alle differenze, diviene l’ostia che santifica ogni bocca affamata di verità. La scrittura di don Tonino sembra spinta dalla necessità impellente di distillare dalla contemplazione di Dio - di quel Dio vivente che danza la vita e che propone la misura di un amore senza misura - una goccia di conversione: non un facile galateo perbenista o una morale bigotta bensì una inesorabile spinta verso l’esodo. L’esodo da sé, dalle proprie pigrizie, dal formalismo di una spiritualità frigida e superficiale, dalle piccole patrie dei miti identitari, dalle sabbie mobili dell’etnocentrismo, dalle patetiche performances di un individualismo mercantile e spesso osceno. L’esodo dalla guerra come paradigma della relazione con l’altro/altra. Una fuga, un cammino, una morte, un tirocinio al deserto, un parto. L’esodo dalla cronaca del peccato alla storia della salvezza. Fino a intuire, non dico vedere, ma almeno a intuire quel passo di danza, quella bellezza che non è una velina, quella sintesi luminosa che chiamiamo Trinità. Fino a celebrare la comunione delle comunioni: cioè la pace. Don Tonino ci regala sempre un lume, con questa sua scrittura sorgiva e battesimale, per scorgere aurore non ancora nate. Ecco. A quel punto dell’orizzonte, a quel punto del mistero, a quel punto della trasparenza, troveremo le parole per sapere e per capire il senso di tutta l’oscurità che ci opprime e di tutta la luce che ancora ci manca.

PREGHIERA
Spirito Santo, dono del Cristo morente,
fa’ che la Chiesa dimostri di averti ereditato davvero.
Trattienila ai piedi di tutte le croci.
Quelle dei singoli e quelle dei popoli.
Ispirale parole e silenzi,
perché sappia dare significato al dolore degli uomini.
Così che ogni povero comprenda che non è vano il suo pianto,
e ripeta con il salmo: «Le mie lacrime, Signore, nell’otre tuo raccogli».
Rendi la Chiesa protagonista infaticabile di deposizione dal patibolo,
perché i corpi schiodati dei sofferenti trovino pace sulle sue ginocchia di madre.
In quei momenti poni sulle sue labbra canzoni di speranza.
E donale di non arrossire mai della Croce,
ma di guardare ad essa come all’antenna della sua nave,
le cui vele tu gonfi di brezza e spingi con fiducia lontano.
Insegnami, allora, a librarmi con Te, Signore.
Perché vivere non è trascinare la vita,
non è strapparla, non è rosicchiarla,
vivere è abbandonarsi come un gabbiano all’ebbrezza del vento.
Vivere è assaporare l’avventura della libertà.
Vivere è stendere l’ala, l’unica ala,
con la fiducia di chi sa di avere nel volo un partner grande come Te.

don Tonino Bello