Miei Cari,
con il mese di ottobre siamo tornati
alla vita “normale”, almeno per la
maggior parte di noi. È iniziata la
scuola, il ritmo produttivo scandisce
orari di lavoro con il consueto
incalzare, le occupazioni della
settimana si posizionano sull’agenda.
È la routine, le solite cose da fare, le
persone da incontrare, gli impegni da
onorare.
Che vita è questa? È la vita obbligata
delle persone mature, quelle che
hanno fatto scelte e preso impegni e
non possono sottrarsi alle
responsabilità familiari, professionali,
sociali, ecclesiali… E non vogliono
neppure spegnere i propri doni nella
pigrizia e nell’individualismo.
Ma non si può vivere di routine!
Anche nel fare le cose più importanti
e grandi (il volersi bene tra coniugi, il
celebrar la Messa del prete, il donare
la vita del volontariato…) può
infiltrarsi, lo sappiamo bene,
l’abitudine, la ripetitività, la
stanchezza.
Ecco la necessità di una vera
spiritualità, quella che fa scoprire Dio
al centro della vita e di ogni giornata:
anche in mezzo alle mille occupazioni
e preoccupazioni. “Vivere secondo lo
Spirito” - scrive C. Contarini - è il
segreto, soprattutto se si riesce a
esplicitare il complemento oggetto:
vivere la scuola, la famiglia, il lavoro,
il servizio in parrocchia, tutto…
secondo lo Spirito! Quello Spirito che
è il segreto della giovinezza della Chiesa, che dà l’energia di sempre
nuova vitalità e la creatività nella
fedeltà quotidiana.
Il mese di ottobre poi aggiunge
un’altra prospettiva che strappa dalla
routine: la dimensione missionaria.
Per respirare con tutta la Chiesa, che è
“cattolica” cioè universale; per
radicare sempre più seriamente il
Vangelo nel centro del cuore; per dare
incisività alla fede vissuta nella
normalità di ogni giorno.
Ricordiamo - scrive G. Bernanos -
che il cristianesimo non è il miele del
mondo, ma il sale della terra: nelle cui
feritoie brucia. Son venuto a portare il
fuoco, dice Gesù. Diamoci quindi da
fare.
È il mio auspicio
Don Vincenzo
4 Ottobre: ricordando Carlo Carretto
LE “DUE VITE” DI FRATEL CARLO
Di Carlo Carretto (Alessandria, 2 aprile 1910 - Spello 4 ottobre 1988) mi tormentano ancora i suoi vivi e penetranti occhi che mi fulminarono in quel lontano incontro di Assisi, durante un raduno mondiale dei giovani francescani. Erano gli occhi di un contemplativo, di un uomo e di un credente che, dall’azione umana ed ecclesiale energica e profetica, passò al totale dono di sé. Quegli occhi con cui guardava e contemplava le stelle che brillavano nel luminoso cielo del Sahara, il deserto algerino dove per dieci anni visse e si formò alla scuola dei fratelli di Charles de Foucauld. Sì, fratel Carlo era appassionato di astri, di quelle stelle, riflettenti l’unica Luce dell’unica Stella (Cristo), che divennero guide per la sua esistenza e dei tanti giovani che sono saliti a Spello dove visse la “seconda parte” della sua vita, dopo la permanenza, faticosa e performativa, nell’eremo africano. In una lettera ai famigliari del giugno 1974, così spiega e sintetizza la scelta della vita religiosa e contemplativa: «Con me Dio usò una tattica diversa. Prima chiese la mia azione, poi chiese me. Nel primo (periodo) mi trovai a lavorare nella Chiesa come un crociato, sentivo di contare qualcosa e mi buttavo nell’azione con la passione di un innamorato. […] Ma lui, il Signore… mi attendeva al varco. Mi sentii dire da lui: “Carlo, non voglio più la tua azione, voglio te”. E mi trovai nel deserto, come in un secondo periodo della mia vita, a svuotarmi delle mie sicurezze e a liberarmi dagli idoli. E’ stata la più splendida avventura della mia vita, anche se la più rude e dolorosa. Dal deserto le cose si vedono meglio, con proporzioni più eterne. Il cosmo prende il posto del tuo paese natio e Dio diventa davvero un Assoluto. Anche la Chiesa si dilata alle dimensioni dell’universo e i lontani, cioè coloro che non sono ancora visibilmente cristiani, diventano vicini».
Un amore viscerale per la Chiesa
Schiettezza, libertà interiore e radicalità evangelica lo portarono ad amare e correggere gli uomini di Chiesa e l’umanità con forza, fedeltà ed umiltà. Carlo Carretto, come Francesco d’Assisi, sognava una Chiesa che avesse gli stessi sogni di Dio, il sogno dell’amore, sempre, comunque. Combattuto tra amore alla “sua” Chiesa e sofferenze per le incomprensioni e le innegabili lontananze evangeliche di alcuni uomini di Chiesa, scriveva così, pregno di amore e dolore, sogni e speranze: «Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo! Quanto mi hai fatto soffrire, eppure quanto a te devo! Vorrei vederti distrutta, eppure ho bisogno della tua presenza. Mi hai dato tanti scandali, eppure mi hai fatto capire la santità! Nulla ho visto nel mondo di più oscurantista, più compromesso, più falso e nulla ho toccato di più puro, di più generoso, di più bello». La Chiesa, amata e contestata da fratel Carlo, è santa e peccatrice, umana ed errante. Ma è proprio questa “dualità” (la santità della Chiesa perché è di Cristo, ed il peccato della Chiesa perché fatta di uomini e peccatori) che lo ha fatto innamorare perdutamente di Dio. «Quante volte ho avuto voglia di sbatterti in faccia la porta della mia anima - diceva idealmente alla Chiesa - e quante volte ho pregato di poter morire tra le tue braccia sicure. No, non posso liberarmi di te, perché sono te, pur non essendo completamente te. E poi, dove andrei? A costruirne un’altra? Ma non potrò costruirla se non con gli stessi difetti, perché sono i miei che porto dentro. E se la costruirò sarà la mia chiesa, non più quella di Cristo. L’altro ieri un amico ha scritto una lettera ad un giornale: “Lascio la Chiesa perché, con la sua compromissione con i ricchi non è più credibile”. Mi fa pena! O è un sentimentale che non ha esperienza e lo scuso; o è un orgoglioso che crede di essere migliore degli altri. Nessuno di noi è credibile finché è su questa terra. San Francesco urlava: “Tu mi credi santo, e non sai che posso ancora avere dei figli con una prostituta, se Cristo non mi sostiene”. La credibilità non è degli uomini, è solo di Dio e del Cristo. Degli uomini è la debolezza e semmai la buona volontà di fare qualcosa di buono con l’aiuto della grazia che sgorga dalle vene invisibili della Chiesa visibile. Forse la Chiesa di ieri era migliore di quella di oggi? Forse la Chiesa di Gerusalemme era più credibile di quella di Roma?».
Il sogno della fragilità
Il sogno di Carlo Carretto si è imbattuto nell’amore del Padre che ama la fragilità, la debolezza, l’infedeltà della sua creatura. Ciò che deve farci amare la Chiesa e l’uomo è il perdono di Dio e la quotidiana risurrezione che lo Spirito Santo opera nella storia e negli uomini nonostante il peccato. Scriveva, ancora, il contemplativo del Subasio: «Quando ero giovane non capivo perché Gesù, nonostante il rinnegamento di Pietro, lo volle capo, suo successore, primo papa. Ora non mi stupisco più e comprendo sempre meglio che aver fondato la Chiesa sulla tomba di un traditore, di un uomo che si spaventa per le chiacchiere di una serva, era un avvertimento continuo per mantenere ognuno di noi nell’umiltà e nella coscienza della propria fragilità. No, non vado fuori di questa Chiesa fondata su una pietra così debole, perché ne fonderei un’altra su una pietra ancora più debole che sono io». La forza che vince la fragilità umana è la stessa di Cristo, ribadiva Carretto, una forza di sostegno e di trasformazione interiore: «Ma - continuava - c’è ancora un’altra cosa che forse è la più bella. Lo Spirito santo che è l’Amore, è capace di vederci santi, immacolati, belli, anche se vestiti da mascalzoni e adulteri. Il perdono di Dio, quando ci tocca, fa diventare trasparente Zaccheo il pubblicano, e immacolata la Maddalena, la peccatrice. È come se il male non avesse potuto toccare la profondità metafisica dell’uomo. È come se l’Amore avesse impedito di lasciare imputridire l’anima lontana dall’amore. “Io ho buttato i tuoi peccati dietro le mie spalle” dice Dio a ciascuno di noi, e continua: “Ti ho amato di un amore eterno, per questo ti ho riservato la mia bontà. Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata, vergine Israele” (Ger 31,3-4). Ecco, ci chiama “Vergini” anche quando siamo di ritorno dall’ennesima prostituzione nel corpo e nello spirito e nel cuore. In questo Dio è veramente Dio, cioè l’unico capace di fare le “cose nuove”. Perché non m’importa che Lui faccia i cieli e la terra nuovi, e più necessario che faccia “nuovi” i nostri cuori. E questo è il lavoro di Cristo. E questo è il lavoro divino della Chiesa. Volete voi impedire questo “far nuovi i cuori”, scacciando qualcuno dall’assemblea del popolo di Dio? O volete, voi, cercando altro luogo più sicuro, mettervi in pericolo di perdervi lo Spirito?». Il segreto di questo profeta, moderno e scomodo, è svelato dalle parole del suo amico Leonello Radi: «L’attività principale di Carlo Carretto erano le otto ore di preghiera al giorno. L’ho trasportato non so quante volte con il mio maggiolino rosso. Durante il viaggio si conversava e, soprattutto, si pregava».
Francesco Armenti
Di Carlo Carretto (Alessandria, 2 aprile 1910 - Spello 4 ottobre 1988) mi tormentano ancora i suoi vivi e penetranti occhi che mi fulminarono in quel lontano incontro di Assisi, durante un raduno mondiale dei giovani francescani. Erano gli occhi di un contemplativo, di un uomo e di un credente che, dall’azione umana ed ecclesiale energica e profetica, passò al totale dono di sé. Quegli occhi con cui guardava e contemplava le stelle che brillavano nel luminoso cielo del Sahara, il deserto algerino dove per dieci anni visse e si formò alla scuola dei fratelli di Charles de Foucauld. Sì, fratel Carlo era appassionato di astri, di quelle stelle, riflettenti l’unica Luce dell’unica Stella (Cristo), che divennero guide per la sua esistenza e dei tanti giovani che sono saliti a Spello dove visse la “seconda parte” della sua vita, dopo la permanenza, faticosa e performativa, nell’eremo africano. In una lettera ai famigliari del giugno 1974, così spiega e sintetizza la scelta della vita religiosa e contemplativa: «Con me Dio usò una tattica diversa. Prima chiese la mia azione, poi chiese me. Nel primo (periodo) mi trovai a lavorare nella Chiesa come un crociato, sentivo di contare qualcosa e mi buttavo nell’azione con la passione di un innamorato. […] Ma lui, il Signore… mi attendeva al varco. Mi sentii dire da lui: “Carlo, non voglio più la tua azione, voglio te”. E mi trovai nel deserto, come in un secondo periodo della mia vita, a svuotarmi delle mie sicurezze e a liberarmi dagli idoli. E’ stata la più splendida avventura della mia vita, anche se la più rude e dolorosa. Dal deserto le cose si vedono meglio, con proporzioni più eterne. Il cosmo prende il posto del tuo paese natio e Dio diventa davvero un Assoluto. Anche la Chiesa si dilata alle dimensioni dell’universo e i lontani, cioè coloro che non sono ancora visibilmente cristiani, diventano vicini».
Un amore viscerale per la Chiesa
Schiettezza, libertà interiore e radicalità evangelica lo portarono ad amare e correggere gli uomini di Chiesa e l’umanità con forza, fedeltà ed umiltà. Carlo Carretto, come Francesco d’Assisi, sognava una Chiesa che avesse gli stessi sogni di Dio, il sogno dell’amore, sempre, comunque. Combattuto tra amore alla “sua” Chiesa e sofferenze per le incomprensioni e le innegabili lontananze evangeliche di alcuni uomini di Chiesa, scriveva così, pregno di amore e dolore, sogni e speranze: «Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo! Quanto mi hai fatto soffrire, eppure quanto a te devo! Vorrei vederti distrutta, eppure ho bisogno della tua presenza. Mi hai dato tanti scandali, eppure mi hai fatto capire la santità! Nulla ho visto nel mondo di più oscurantista, più compromesso, più falso e nulla ho toccato di più puro, di più generoso, di più bello». La Chiesa, amata e contestata da fratel Carlo, è santa e peccatrice, umana ed errante. Ma è proprio questa “dualità” (la santità della Chiesa perché è di Cristo, ed il peccato della Chiesa perché fatta di uomini e peccatori) che lo ha fatto innamorare perdutamente di Dio. «Quante volte ho avuto voglia di sbatterti in faccia la porta della mia anima - diceva idealmente alla Chiesa - e quante volte ho pregato di poter morire tra le tue braccia sicure. No, non posso liberarmi di te, perché sono te, pur non essendo completamente te. E poi, dove andrei? A costruirne un’altra? Ma non potrò costruirla se non con gli stessi difetti, perché sono i miei che porto dentro. E se la costruirò sarà la mia chiesa, non più quella di Cristo. L’altro ieri un amico ha scritto una lettera ad un giornale: “Lascio la Chiesa perché, con la sua compromissione con i ricchi non è più credibile”. Mi fa pena! O è un sentimentale che non ha esperienza e lo scuso; o è un orgoglioso che crede di essere migliore degli altri. Nessuno di noi è credibile finché è su questa terra. San Francesco urlava: “Tu mi credi santo, e non sai che posso ancora avere dei figli con una prostituta, se Cristo non mi sostiene”. La credibilità non è degli uomini, è solo di Dio e del Cristo. Degli uomini è la debolezza e semmai la buona volontà di fare qualcosa di buono con l’aiuto della grazia che sgorga dalle vene invisibili della Chiesa visibile. Forse la Chiesa di ieri era migliore di quella di oggi? Forse la Chiesa di Gerusalemme era più credibile di quella di Roma?».
Il sogno della fragilità
Il sogno di Carlo Carretto si è imbattuto nell’amore del Padre che ama la fragilità, la debolezza, l’infedeltà della sua creatura. Ciò che deve farci amare la Chiesa e l’uomo è il perdono di Dio e la quotidiana risurrezione che lo Spirito Santo opera nella storia e negli uomini nonostante il peccato. Scriveva, ancora, il contemplativo del Subasio: «Quando ero giovane non capivo perché Gesù, nonostante il rinnegamento di Pietro, lo volle capo, suo successore, primo papa. Ora non mi stupisco più e comprendo sempre meglio che aver fondato la Chiesa sulla tomba di un traditore, di un uomo che si spaventa per le chiacchiere di una serva, era un avvertimento continuo per mantenere ognuno di noi nell’umiltà e nella coscienza della propria fragilità. No, non vado fuori di questa Chiesa fondata su una pietra così debole, perché ne fonderei un’altra su una pietra ancora più debole che sono io». La forza che vince la fragilità umana è la stessa di Cristo, ribadiva Carretto, una forza di sostegno e di trasformazione interiore: «Ma - continuava - c’è ancora un’altra cosa che forse è la più bella. Lo Spirito santo che è l’Amore, è capace di vederci santi, immacolati, belli, anche se vestiti da mascalzoni e adulteri. Il perdono di Dio, quando ci tocca, fa diventare trasparente Zaccheo il pubblicano, e immacolata la Maddalena, la peccatrice. È come se il male non avesse potuto toccare la profondità metafisica dell’uomo. È come se l’Amore avesse impedito di lasciare imputridire l’anima lontana dall’amore. “Io ho buttato i tuoi peccati dietro le mie spalle” dice Dio a ciascuno di noi, e continua: “Ti ho amato di un amore eterno, per questo ti ho riservato la mia bontà. Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata, vergine Israele” (Ger 31,3-4). Ecco, ci chiama “Vergini” anche quando siamo di ritorno dall’ennesima prostituzione nel corpo e nello spirito e nel cuore. In questo Dio è veramente Dio, cioè l’unico capace di fare le “cose nuove”. Perché non m’importa che Lui faccia i cieli e la terra nuovi, e più necessario che faccia “nuovi” i nostri cuori. E questo è il lavoro di Cristo. E questo è il lavoro divino della Chiesa. Volete voi impedire questo “far nuovi i cuori”, scacciando qualcuno dall’assemblea del popolo di Dio? O volete, voi, cercando altro luogo più sicuro, mettervi in pericolo di perdervi lo Spirito?». Il segreto di questo profeta, moderno e scomodo, è svelato dalle parole del suo amico Leonello Radi: «L’attività principale di Carlo Carretto erano le otto ore di preghiera al giorno. L’ho trasportato non so quante volte con il mio maggiolino rosso. Durante il viaggio si conversava e, soprattutto, si pregava».
Francesco Armenti
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ANNO XXVIII - N.336
19 Ottobre: LA BEATIFICAZIONE DI PAPA PAOLO VI
Paolo VI (nato Giovanni Battista Enrico
Antonio Maria Montini) nasce a
Concesio il 26 settembre 1897. È stato il
262° Vescovo di Roma e Papa a partire dal
21 giugno 1963 fino alla morte, avvenuta a
Castel Gandolfo il 6 agosto 1978. Venerabile
dal 20 dicembre 2012, dopo che papa
Benedetto XVI ne ha riconosciuto le virtù
eroiche, sarà beatificato il 19 ottobre
prossimo.
Davanti a una realtà sociale che tendeva
sempre più a separarsi dalla spiritualità, che
andava progressivamente secolarizzandosi, di
fronte a un difficile rapporto chiesa-mondo,
Paolo VI seppe sempre mostrare con coerenza
quali sono le vie della fede e dell’umanità
attraverso le quali è possibile avviare una
solidale collaborazione verso il bene comune.
Non fu facile mantenere l’unità della Chiesa
cattolica, mentre da una parte gli
ultratradizionalisti lo attaccavano accusandolo
di aperture eccessive, se non addirittura di
modernismo, e dall’altra parte i settori
ecclesiastici più vicini alle idee socialiste lo
accusavano d’immobilismo. Di grande rilievo
fu la sua scelta di rinunciare, nel 1964, all’uso
della tiara papale, mettendola in vendita per
aiutare, con il ricavato, i più bisognosi. Uomo
mite e riservato, dotato di vasta erudizione e,
allo stesso tempo, profondamente legato a
un’intensa vita spirituale, seppe proseguire il
percorso innovativo iniziato da Giovanni
XXIII, consentendo una riuscita prosecuzione
del Concilio Vaticano II, portandolo a
compimento con grande capacità di
mediazione, garantendo la solidità dottrinale
cattolica in un periodo di rivolgimenti
ideologici ed aprendo fortemente verso i temi
del Terzo Mondo e della pace. Da una parte
appoggiò l’”aggiornamento” e la
modernizzazione della Chiesa, ma dall’altra,
come tenne a sottolineare, il 29 giugno 1978,
in un bilancio a pochi giorni della morte, la
sua azione pontificale aveva tenuto quali punti
fermi la “tutela della fede” e la “difesa della
vita umana”.
Molto complesse furono le questioni del
controllo delle nascite e della contraccezione,
trattate nella Humanae Vitae del 25 luglio
1968, la sua ultima enciclica. Il 24 dicembre
1974 inaugurò l’Anno Santo del 1975.
Durante il sequestro Moro, il 16 aprile 1978
Paolo VI implorò personalmente e
pubblicamente, con una lettera diffusa su tutti
i quotidiani nazionali il 21 aprile, la
liberazione “senza condizioni” dello statista e
caro amico Aldo Moro, rapito dagli “uomini
delle Brigate Rosse” alcune settimane prima.
Ma a nulla valsero le sue parole: il cadavere di
Aldo Moro fu ritrovato il 9 maggio 1978, nel
bagagliaio di una Renault color amaranto, in
Via Caetani a Roma. La salma di Moro fu
portata dalla famiglia a Torrita Tiberina per
un funerale riservatissimo. Ma il 13 maggio,
nella Basilica di San Giovanni in Laterano,
alla presenza di tutte le autorità politiche, si
celebrò un rito funebre in suffragio
dell’onorevole, al quale prese parte anche il
Pontefice. Il Papa,
provato dall’evento,
recitò un’omelia
ritenuta da alcuni
una delle più alte
nell’omiletica della
Chiesa moderna.
Questa omelia inizia
con un sommesso
rimprovero a Dio
ma prosegue
affidandosi nuovamente alla misericordia del
Padre: “Ed ora le nostre labbra, chiuse come
da un enorme ostacolo, simile alla grossa
pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di
Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il “De
profundis”, il grido, il pianto dell’ineffabile
dolore con cui la tragedia presente soffoca la
nostra voce. Signore, ascoltaci! E chi può
ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu,
o Dio della vita e della morte? Tu non hai
esaudito la nostra supplica per la incolumità di
Aldo Moro, di questo uomo buono, mite,
saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore,
non hai abbandonato il suo spirito immortale,
segnato dalla fede nel Cristo, che è la
risurrezione e la vita. Per lui, per lui. Signore,
ascoltaci!”.
Il 10 maggio 1972 benedisse le due corone
d’oro collocate sull’effige della Vergine e del
Bambino Gesù custodita nel Santuario della
Madonna delle Grazie.
Salvatore Bernocco
Salvatore Bernocco
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ANNO XXVIII - N.336
Nel tempo e nello spazio di Dio
Sia pure in sordina, il
mese di settembre
introdusse il lavoro
pastorale con incontri di
programmazione per il
nuovo anno. Ci si incontrò
con i responsabili della
catechesi e degli altri
movimenti parrocchiali per
impostare meglio il lavoro che
ci attende tra poco. Il parroco
si assentò per alcuni giorni e
fu a Bergamo dove si incontrò
con amici e insieme con il
cardinale Capovilla (novantanovenne)
già Segretario di San Giovanni
XXIII. Egli era stato a Ruvo e in parrocchia
nel 1976 e nell’88.
Molti i fedeli che si prepararono alla
festa di S. Pio che culminò con
il giorno 23, preceduta dalla
Veglia di Preghiera e le
celebrazioni con la festa
esterna.
L’adorazione mensile fu
animata dal Gruppo
Eucaristico parrocchiale e
il Volontariato Vincenziano
solennizzò la festa di S.
Vincenzo de’ Paoli il
giorno 27. Una buona
rappresentanza della
parrocchia, con il
parroco, partecipò al Convegno
Diocesano tenutosi presso l’Auditorium
Regina Pacis. E un nutrito gruppo si
recò in pellegrinaggio a Casacalenda a
venerare la Madonna della Difesa il cui
santuario è gemellato con la cappellina
di Ruvo nella zona della “Difesa”
comunale.
Luca
Luca
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ANNO XXVIII - N.336
Pellegrinaggio a Casacalenda
Nutrire la propria
fede allargando gli
orizzonti è un
esempio concreto
di come la
curiosità possa
aggiungere alla
propria vita quel
pizzico necessario
a scoprire per poi
conoscere.
Un valido esempio è stato il pellegrinaggio
a Casacalenda (CB) il 28 settembre scorso,
giorno in cui quel paese festeggia la sua
Patrona: “S. Maria della Difesa”.
Esperienza, frutto di un gemellaggio con
l’omonima cappella di Ruvo, che ha visto un
gruppo di amici della comunità, dirigersi
verso questo bellissimo posto, guidati dal
nostro parroco don Vincenzo.
Subito il paesaggio naturale
è emerso, rendendo il pellegrinaggio
interessante e catturando spesso
l’attenzione durante il viaggio.
Isolato su una montagna, tra le nuvole, nei
pressi del paese di Casacalenda, il santuario
dedicato a S. Maria ha origini storiche
risalenti a presunte visioni o sogni di
contadini del luogo che furono invogliati a
scavare nella
località detta
“Difesa” (da cui
appunto la
Madonna prende il
nome) per la ricerca
di un tesoro. Gli
scavi portarono alla
luce un altare, degli
scheletri umani,
resti di una chiesa e
una lapide funeraria
del 44 a.C.. su
quelle fondamenta
fu costruito il
santuario dedicato a
S. Maria,
costruzione
terminata poi nel
1898 con
l’autorizzazione del
vescovo di Larino
Mons. Di Milla.
La chiesa però, è stata chiusa al culto per
lavori di restauro dovuti al terremoto del 31
ottobre 2002 e riaperta solo l’anno scorso
al culto.
Nel giorno della festa, sacro e folklore
trovano il loro equilibrio radunando migliaia
di fedeli da tutto il Molise e non solo e
basta poco per rendersi conto di quanti
siano stati, nel tempo, i miracoli che la
gente ha attribuito alla Madonna. È per
questo che tutte queste testimonianze sono
state raccolte in un museo storico
sovrastante la chiesa, inaugurato il 24
maggio 2014.
Appena arrivati, il gruppo ha trovato il
benevolo accoglimento del parroco di
Casacalenda Mons. Gabriele Tamilia, che
ha invitato il nostro parroco a celebrare
l’Eucarestia.
Non è mancata, anche l’occasione di
raccontarsi a vicenda le due storie: quella
della nostra cappellina e quella del
santuario di Casacalenda dalla cui zona
entrambe prendono il nome.
Speriamo che questo incontro dia vita ad
un fraterno gemellaggio che porterà quella
comunità a visitare, il prossimo anno, la
nostra bellissima terra pugliese.
Francesca de Astis
Francesca de Astis
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