PROVIAMO A CONOSCERCI VERAMENTE

Miei Cari,
sembra sia il momento più opportuno quello che intercorre tra il tempo di Natale e quello di Quaresima il rientrare in noi stessi per parlare con Dio e raccontarci davanti a Lui. Infatti noi non siamo quello che gli altri pensano di noi. È per questo che ci viene di sorridere sia quando ci definiscono santi, sia quando fanno di noi dei diavoli: in nessun caso ritroviamo noi stessi.
Si avvicinano meglio alla nostra verità coloro che ci amano. Ma anche l’amore, spesso, ha lo sguardo debole, deforma quel che vede. Questa incapacità di definire la nostra vera identità ci rende ancor più desiderosi di saper chi siamo.
Sul frontone del tempio di Delfi era scolpita la famosa frase:“Conosci te stesso”. Gli antichi greci scolpirono con quelle parole il nostro innato desiderio di cercare la nostra interiorità, di scandagliare il nucleo nostro profondo. È davvero difficile sapere chi siamo veramente, al di là del chiacchiericcio, delle adulazioni o anche degli insulti immeritevoli che ci piovono addosso. Con tanta commozione l’indimenticabile maestro Michele Cantatore diceva: “Lui solo (il Signore) sa come siamo fatti” volendo egli dire che ci ama così come siamo. Il problema angustiò il grande Agostino, scapestrato e peccatore per lungo tratto dell’esistenza, ma sempre assillato dall’ansia di decifrarsi e capirsi. E giunse alla presenza di Dio: “Che io conosca Te, che io conosca me”. Non c’era altra possibilità che mettersi davanti a Dio. Preme dire, miei Cari, che la preghiera è necessaria per scendere nella propria interiorità. Essa è lo specchio fedele che ci rimanda la nostra vera immagine. Il problema infatti è conoscersi e definirsi senza… falsificare il documento! L’autoinganno è sempre in agguato, e diventa anche piacevole, perché accarezza il nostro orgoglio, nasconde la nostra responsabilità; camuffa il male sotto forma di bene.
La preghiera si racconta la verità dell’essere umano.
Nulla, come la preghiera fa entrare la storia dell’uomo nella storia di Dio.
Siamo quello che siamo davanti a Dio; fuori di Lui restiamo indecifrabili.
La preghiera è dialogo, “parla sempre”, anche quando non usa parole.
Essa è sostanza di sguardi, di gesti, di comportamenti, col corpo prostrato e gli occhi rapiti. Vuol dire cioè parlare con Dio, raccontarci davanti a Lui, ascoltare la sua parola, comunicare col suo volto, incrociare il suo sguardo, rispondergli magari arrabbiandoci con Lui e porgendogli domande, supplicandolo nel tempo della sofferenza e lodandolo nella gioia.
La quaresima che stiamo per iniziare ci fa prendere le distanze da quello che va oggi di moda: l’esibizione dell’intimo, la scomparsa del pudore nel dare in pasto a milioni di telespettatori le confessioni personali o i problemi familiari. Questa non è certo la verità sull’uomo: è pornografia dell’anima, un’anima messa a nudo in modo scomposto. Saremo anche in crisi economica, ma è intatta l’ansia mai sazia di beni terreni. Questo rovina tutto. La rivincita dell’anima è rimandata a data da stabilire.
È quanto propongo a me e a voi per entrare col piede giusto nel tempo forte della quaresima.
È il mio auspicio.

Don Vincenzo

11 Febbraio - FORZA, ANZI FORTEZZA (giornata mondiale del malato)


Nel mondo è tanta la sofferenza. A volte è clamorosa, manifesta, gridata e si impone sui mass-media. Molto più spesso è silente e nascosta e si consuma nell’ombra. Soffre la donna che non riesce ad accettare la vita che le sta crescendo in grembo, soffre fino al punto di considerare quella vita una minaccia, la causa di ulteriori disagi e nuove sofferenze. Soffre chi è affetto da malattie degenerative che senza scampo gli chiudono ad una ad una tutte le finestre sul mondo: muoversi, parlare, toccare, accarezzare, sorridere, gustare il cibo, comunicare.
Soffrono i parenti di chi vede il proprio caro in coma, per giorni, mesi e anni, e non intravedendo una via d’uscita‘vivono una sofferenza che solo loro possono conoscere. Soffre, in generale, chi è solo e non è amato da nessuno.
Soffre chi ha perso - forse non ha mai avuto davvero - uno scopo per vivere e si trascina giorno dopo giorno come chi cammina nella nebbia, tutta uguale e tutta insensata.
A tutte queste forme di sofferenza è possibile dare sostanzialmente due risposte: di morte o di vita. Da una parte o dall’altra del confine.
La prima è sicuramente più facile e sbrigativa, a tal punto che alcuni la spacciano per la vera “scelta dettata dall’amore”. La seconda è più difficile e può accadere che molte persone abbiano la sensazione di non possedere la forza necessaria per farcela. La scelta della morte è una porta che si chiude per sempre. La scelta della vita è una porta che si apre: alle relazioni, ad uno scopo, a nuovi progetti. La scelta della morte è un grande “no”. La scelta della vita è un grande “sì”: ed è “sì’” che il cristiano dice. “Sì” all’amicizia, alla vicinanza, alla solidarietà. “Sì” alle cure palliative. “Sì” alla ricerca, quella che cerca i rimedi e allevia la sofferenza. “Sì’” agli interventi che consentano
a tutti di comunicare e vivere una vita degna, anche se costretta in una carrozzella
o in un letto. Di “no” ce n’è uno solo: alle scelte di morte. “No” all’aborto, l’opzione di chi pensa di alleviare così la propria sofferenza e non sa che ne genera altra, condannandosi a convivere con una ferita che mai si potrà rimarginare del tutto. “No” all’eutanasia, anche se spacciata per diritto all’autodeterminazione.
“No” a tutto ciò che renda l’uomo simile ad un oggetto, a una merce, a un ingombro.
Da un lato la sofferenza, dunque. Dall’altro la forza; anzi la fortezza, virtù di chi vive la propria vita, e la propria sofferenza. È la virtù più preziosa in un tempo, il nostro, che appare dominato dall’accidia, la vera e profonda causa della sofferenza. Accidia: una parola che possiamo chiamare anche negligenza, indifferenza, trascuratezza, instabilità, pessimismo, sconforto, noia, ma senza cogliere nel segno.
Accidia, oggi, è la condizione di chi non padroneggia la propria vita, non sa darle una direzione, ha smarrito lo scopo. Di chi detesta tutto ciò che ha e desidera tutto ciò che non ha, salvo detestarlo non appena se ne impossessa.
Di chi non sa più perché sta vivendo. È la condizione del consumista triste convinto che la soluzione più “facile” e sbrigativa sia sempre e comunque la migliore. Fosse pure la morte.
L’accidia è l’incapacità di sentir vibrare il proprio cuore, di appassionarsi davvero alla famiglia e alla professione, di perseguire un grande progetto di vita. Se ciò è vero, l’accidia è forse il più diffuso vizio sociale e ciò che sta dietro i cento volti della sofferenza dell’uomo d’oggi. È una condizione che, in epoca non sospetta, ben descriveva Gustave Flaubert(1821-1880): «Mi sembra di attraversare una solitudine senza fine, per andare non so dove».
John R. R. Tolkien, nel suo capolavoro, Il signore degli anelli (1955), incarna la virtù della fortezza in Frodo, il piccolo hobbit con un compito immane, non un eroe ma un individuo fragile e normale, soggetto a tristezze e tentazioni. Eppure con due grandi risorse: la fede e gli amici. Tolkien ci dice che sulla strada verso la fortezza non siamo soli.
Gli uomini, e specialmente i cristiani, sono un popolo. Si fanno compagnia: la Compagnia dell’anello, che nasce a Gran Burrone su mandato di Elrond, re degli elfi. Una compagnia di uomini, nani, elfi e hobbit: hanno bisogno gli uni degli altri per la salvezza della Terra.

Simone Marini

ANCORA SULLE FAMIGLIE FERITE

Dopo i miei interventi sulle «Famiglie ferite», - «Sposi, cioè genitori sempre», a proposito dei miei rapidi cenni sull’adozione e sull’affido - alcune lettere mi hanno provocato a riprendere il dialogo. Parole pesanti e grondanti dell’amarezza di spose umiliate, vittime di un abbandono che hanno cercato tenacemente ma inutilmente di scongiurare, o di genitori mancati che, dopo aver invano tentato la strada dell’adozione, si sono dovuti arrendere davanti ai troppi ostacoli di tipo burocratico o economico. Il mistero del dolore, soprattutto del dolore incolpevole, è durissimo da accettare. Non bastano certo le parole. Si può solo condividerlo. E si può osare farlo unicamente perché si è certi che Cristo l’ha condiviso fino in fondo, bevendo fino all’ultima goccia il calice del suo sacrificio sulla Croce. Così, in questo mistero di amore abissale, il Signore ha salvato il dolore di ogni uomo.
Dove, in questo mio dialogo mensile con voi, ho toccato dei tasti dolorosi della vita di molti esprimendo il mio giudizio, o meglio, facendomi portavoce del giudizio della Chiesa, esperta in umanità, le mie parole hanno voluto soltanto essere un’umile eco della Sua compagnia al vostro dolore.
Il giudizio, autenticamente e cristianamente inteso, non è mai una condanna, ma piuttosto l’umile testimonianza resa alla verità che apre alla speranza. E la verità del disegno di Dio sul matrimonio è affermata con forza dal Vangelo: «Quello che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi» (Mt 19,6). «Il vincolo matrimoniale - riprende il Catechismo - è dunque stabilito da Dio stesso, così che il matrimonio concluso e consumato tra battezzati non può mai essere sciolto. Questo vincolo, che risulta dall’atto umano libero degli sposi e dalla consumazione del matrimonio, è una realtà ormai irrevocabile e dà origine a un’alleanza garantita dalla fedeltà di Dio. Non è in potere della Chiesa pronunciarsi contro questa disposizione della sapienza divina» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1640).
Per il cristiano tutta la vita è vocazione. Ogni rapporto e ogni circostanza vissuti nella verità sono parte del disegno di Dio su di noi, come strada del rapporto con Lui. Attraverso quell’ingiustizia che tu senti come incomprensibile e inaccettabile, è Gesù che ti chiama e ti chiede, come fece con Pietro: «Mi ami tu?».
Per questo, se anche il rapporto finisce, il tuo matrimonio non finisce. Il tuo matrimonio, infatti, non è riducibile al rapporto con tuo marito o con tua moglie; in esso è presente l’iniziativa di Dio cui tu hai aderito pubblicamente nel sacramento del matrimonio. Certo l’infedeltà di tuo marito o di tua moglie rende molto dolorosa la tua fedeltà, ma da un certo punto di vista non la tocca, anzi la rende ancora più necessaria. Questa, a ben vedere, rafforza la tua libertà, se no tu sei prigioniero del limite dell’altro e del tuo.
Il disegno misterioso del Padre potrebbe chiederti, come chiese al profeta Osea, di «portare» fino alla fine dei tuoi giorni una moglie (o un marito) che non ne vuol più sapere di te e ti umilia fino a deriderti. E tu, abbracciando questa condizione, diventeresti una eco della indomabile misericordia di Dio. Segno oggettivo, tanto più luminoso quanto più «scarnificato», della totale gratuità con cui Egli ama l’uomo. Perciò straordinariamente fecondo e capace di sostenere la speranza degli uomini. Conosco non pochi uomini e donne che vivono così. «Come è possibile?», mi chiedi.
Ti rispondo, consapevole della vertigine che questa posizione dà, con le parole dell’Angelo alla Vergine: «Nulla è impossibile a Dio». E insieme a te ricordo le parole che Gesù, poche ore prima di consegnare se stesso sulla croce, ha detto ai suoi: «Coraggio, io ho vinto il mondo» (Gv 16,33).


Card. ANGELO SCOLA, Arcivescovo di Milano

CHE FAMIGLIA... SE I GENITORI OBBEDISSERO

Allora, sinonimi delle felicità piena non sono il piacere e la gratificazione, l’appagamento e la soddisfazione, la contentezza e la spensieratezza (come propone un qualsiasi dizionario, compreso quello elettronico!), quanto piuttosto il dono e la rinuncia di sé, a qualunque costo, in qualsiasi circostanza, solo per il bene dell’altro: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita”(Gv 15,13).
L’obbedienza va incarnata e vissuta nella quotidianità, il luogo dove ogni membro dovrebbe imparare a “dare la vita” nelle piccole cose, nei gesti, nelle parole e a “dare alla luce” il bello e il bene pensato da Dio per chi ci ha messo accanto, nelle semplici scelte di tutti i giorni. Sulla scia del prossimo incontro mondiale di Milano su Famiglia, lavoro e festa, potremmo chiederci: come, concretamente, la nostra famiglia riesce a riempire di festa la ferialità, il lavoro, gli impegni e a vivere la festa come “occasione” propizia e come giorno del Signore?
Attraverso il nostro stile di vita, quali valori trasmettiamo ai nostri figli?
Oggi, molte famiglie sperimento il sovraccaricarsi degli impegni, risentono della precarietà economica e lavorativa, guardano con sfiducia al futuro, fino a rendere più difficile e a perdere il gusto dello stare insieme.
Personalmente, penso che la festa nasca dalla presenza unica e gratuita dell’altro, nella gratitudine e nello stupore di averlo accanto, qualsiasi sia la condizione in cui ci si trova. La festa è quel tempo in cui, almeno apparentemente, non c’è nulla da produrre o da realizzare, se non l’intessere relazioni significative che nutrano di sé e che accolgano l’altro, così, semplicemente, felici di esserci.
Oggi, per una famiglia, darsi del tempo non è facile, così come non lo è salvaguardarlo dalle mille insidie esterne o anche solo custodire e difendere la domenica, come tempo sacro, ricco di valore, di Presenza.
Credo che si debba ripartire da qui, perché è dal santificare la festa, attraverso l’ascolto della Parola, il nutrirsi di Cristo e della comunione fraterna, che ha origine l’autentica difesa della gioia e della vita, che si scopre il senso più profondo delle ripetitive azioni di ogni giorno, che si trova il coraggio di superare le più dure difficoltà e la forza per vivere l’amore come rinuncia di sé e apertura all’altro: tutto diventa tempo sacro perché abitato da un ascolto obbediente del comando del Signore.
Una domenica così la si sceglie se si è convinti che il primo compito di un genitore è quello di trasmettere valori alti, di aiutare i propri figli a scoprire la loro vocazione di consegnare loro ciò che è duraturo, ciò che rimane, ciò che “né tignuola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano” (Mt 6,21), più che accumulare per loro tanti beni o ambizioni effimere. In molte case si issano inferriate e porte blindate, si posizionano allarmi per difendersi da possibili furti senza accorgersi che lasciamo che tesori momentanei ci rubino il bene più prezioso: il cuore (cf Mt 6,21), gli affetti, il tempo, la possibilità di stare insieme.
Va dove ti porta il cuore. Quante volte, questa espressione male intesa, finisce con il portare papà e mamme su strade non vere, pericolose, dove non esiste più alcuna segnaletica e dove, in nome della propria libertà, si relega in un remoto angolino la responsabilità nei confronti dell’altro.
La passione del “cuore”, a volte, può allontanare dalla verità, dal partner, dai figli.
Di fronte a papà e mamme eccessivamente presi dai propri impegni, persi dietro i propri hobby o la propria immagine, interessati ad altre relazioni, sono soprattutto i bambini a soffrirne, tanto da arrivare a gridare il loro disagio nei modi più diversi.
È allora che nella famiglia finisce la festa.
Parafrasando una frase di Benedetto XVI, potremmo dire che ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono genitori che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile ai loro figli... Soltanto attraverso uomini e donne, genitori toccati ed illuminati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini. E solo allora sarà di nuovo festa!

Marina Berardi

DOVE SEI? (riflessione per il tempo di Quaresima)

"Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto.»“
Sono i versetti 8-10 del capitolo terzo del libro della Genesi, intitolato “La caduta”. La caduta dell’uomo ha inizio con la paura di Dio e con il nascondimento. Dalla condizione di intimità con Dio si passa ad una condizione di dolore. L’uomo si scopre nudo, avverte cioè che la sua condizione è mutata a causa di un atto di disobbedienza. Nudità equivale a miseria morale, senso di colpa, peccato, che altro non è che una condizione di alienazione rispetto al nostro io divino, quello sano ed integro.
Prendo a spunto per la riflessione sul tempo di Quaresima la domanda che Dio rivolge ad Adamo: “Dove sei?”.
Dio sa bene dove l’uomo è. Se non lo sapesse non sarebbe Dio. In questo senso la domanda è retorica se non superflua.
Ma il punto è che Dio inaugura un dialogo con l’uomo proprio nel momento più critico dei loro rapporti e l’uomo e lo invita a riflettere sulla propria condizione interiore, sul suo essere nel mondo.
Quella domanda vale anche per noi. Dio si rivolge a ciascuno di noi e ci chiede: “Dove sei?”. Dove ti trovi? Dove sei rispetto all’accoglienza della buona notizia? In quale punto ti trovi del tuo cammino interiore dall’io egoico all’io secondo il Cristo? Ti trovi allo stesso punto dell’anno scorso, di tre anni fa, o hai fatto dei passi in avanti? È cambiato il tuo modo di rapportarti al tuo prossimo, sei più altruista, ti accosti a chi soffre, oppure ti fai risucchiare dal gorgo del tuo egoismo e ti tieni alla larga dal fratello? Come va con la preghiera, con la meditazione, con la frequenza ai sacramenti della riconciliazione e della comunione? Ci credi veramente o sei dubbioso? Quale idea ti sei fatta di Dio? Pensi che sia il Padre misericordioso, il Buon Samaritano, il Pastore che si prende cura della pecora smarrita, oppure un dio che si diverte a seminare croci e sofferenze?
Quella domanda è quindi fondamentale.
È onnicomprensiva ed è pedagogica perché è diretta a farci crescere, a farci prendere consapevolezza della nostra attuale condizione interiore.
Rispondendo a quella domanda ci giudichiamo e ci vediamo alla luce del piano divino di redenzione e salvezza.
Se la nostra coscienza, in qualche punto, ci rimorde, è segno che dobbiamo revisionare mezzi e fini. Ma in che modo si cresce? Come un atleta migliora le sue prestazioni attraverso la disciplina ed il duro allenamento, con rinunce e sacrifici, così l’uomo interiore si sviluppa attraverso la cura dell’anima, la disciplina interiore, la meditazione delle cose dello spirito. Qual è il segno che il lavoro interiore è stato efficace, che ci siamo evoluti spiritualmente e cristianamente? Il segno è l’altro. Non Dio, il quale non ha bisogno di noi, ma l’altro uomo. Posso concludere in questi termini: l’altro è il termine di confronto e di paragone della verità del nostro rapporto col Signore.
La Quaresima è il tempo propizio per risintonizzarci sulla lunghezza d’onda dell’amore per il prossimo. Se avessimo bisogno di libri di testo, suggerirei di leggere il breve ma intenso lavoro di Martin Buber, “Il cammino dell’uomo”, edito dalle edizioni Qiqajon della Comunità di Bose. E di soffermarsi sulle parabole del Buon Samaritano e del Padre misericordioso, due pietre miliari dell’amore di Dio per ogni uomo e, quindi, misura dell’amore che dovremmo dimostrare concretamente ad ogni uomo e donna che incontriamo sul nostro cammino.

Salvatore Bernocco

Nel tempo e nello spazio di Dio

Iniziammo il nuovo anno con l’invocazione allo Spirito Santo e la proclamazione del Protettore dell’anno che quest’anno è S. Gabriele dell’Addolorata di cui ricorrono i 150 anni della morte. Il parroco incontrò poi i genitori dei ragazzi di catechesi per evangelizzarli e spiegare loro il ruolo di essere genitori oggi. Ci ritrovammo poi per la festa dell’Epifania e la processione di Gesù Bambino in Piazza Castello. Presso l’oratorio ricevemmo i doni della Befana e facemmo festa insieme. Molto successo riscosse il Presepe Vivente realizzato dagli amici del sodalizio di S. Rocco, tenacemente voluto dal priore Cosimo Caldarola e i suoi stessi collaboratori. All’incontro del Gruppo Caritas parrocchiale, fece seguito l’incontro mensile delle associate della Madonna del Buon Consiglio. Puntualmente si tennero gli incontri per gli Amici della Parola che stanno approfondendo con il parroco i Vangeli dell’Infanzia. Coronò il mese l’adorazione eucaristica del primo giovedì e del 23, animata dal Gruppo di Preghiera di S. Pio. A fine mese festeggiammo col Triduo Solenne e la celebrazione eucaristica il medico, eremita e martire S.Ciro.

Luca