Madre Teresa: IL SORRISO DELLA SANTITÀ

Il percorso per riconoscere la santità (canonizzazione) si avvia in presenza di un miracolo ottenuto per l’intercessione di una persona che ha vissuto in maniera sublime il Vangelo. Penso che per Madre Teresa di Calcutta tale richiesta sia solo un valore aggiunto. L’aurea della santità era evidente già in vita e la morte, avvenuta il 5 settembre 1997, ha solo confermato l’esercizio eroico delle virtù. Elevarla all’onore degli altari è quanto mai doveroso e significativo.
Due i miracoli riconosciuti: la guarigione nel 1998 di una donna induista originaria di un villaggio a nord di Calcutta e quella nel 2008 di un uomo ridotto in fin di vita da “ascessi multipli cerebrali con idrocefalo ostruttivo”.
È tuttavia la sua stessa vicenda personale a essere un “miracolo” della fede. Dalla periferica Albania ai quartieri più poveri e degradati di Calcutta. Una santità delle periferie, per dirla con parole care a papa Francesco. Sarà proprio lui il 4 settembre ad additare al mondo quale esempio di virtù cristiane la piccola suora in sari bianco (la veste tradizionale delle donne indiane) orlato di blu. La biografia ci dice che non si tratta di una semplice e pia vocazione alla vita religiosa. Destinata al compito educativo, secondo la regola dell’Istituto delle Suore di Loreto presso le quali aveva emesso i voti, Madre Teresa (al secolo Agnes Gonxha Bojaxhiu) ha scoperto la «chiamata nella chiamata» sulle strade dell’India. Divenuta l’angelo dei poveri, la sua figura e la sua opera hanno valicato i confini del paese asiatico fino ad assurgere a emblema di carità in tutto il mondo.
Da quel primo incontro con una donna che giaceva sul marciapiede: «Era debole, sottile e magrissima - ricorda lei stessa-; si vedeva che era molto malata e l’odore del suo corpo era così forte che stavo per vomitare... ho visto dei grossi topi che mordevano il suo corpo senza speranza, e mi sono detta: questa è la cosa peggiore che hai visto in tutta la tua vita».
Non ci sono state barriere di etnia, di religione, di cultura che abbiamo prevalso sulla carità, suscitando stupore negli stessi emarginati.
Non sono mancate le accuse, le dicerie, le calunnie: sulla gestione dei fondi, sul modo di intendere l’aiuto ai poveri e ai moribondi, sui suoi ricoveri.
Non sono mancati nemmeno i momenti bui, abbandonata in una “aridità spirituale”, fra “le torture della solitudine”. Una “dolorosa notte” dell’anima iniziata nel periodo in cui aveva cominciato il suo apostolato che la condusse a un’unione ancora più profonda con Dio. Attraverso l’oscurità partecipò misticamente alla sete di Gesù, al suo desiderio, doloroso e ardente, di amore.
Del grido di Cristo sulla croce, “ho sete”, fece un motto, trascritto nelle cappelle delle case delle Missionarie della Carità.
I veri miracoli sono la sua vita e la sua carità: come dal nulla di una esistenza possa emergere un’opera così grande! La definizione più significativa di se stessa viene dai suoi scritti: una matita nelle mani di Dio. Una semplice matita per non darsi importanza e tracciare segni senza arroganza. Il Nobel per la Pace tributato nel 1979 è il riconoscimento laico di una santità smisurata.
È questa la forza della carità cristiana: non conosce barriere o differenze e si presenta come la migliore testimonianza del Vangelo. L’immagine che ci portiamo nel cuore è il suo sorriso. Il sorriso di una donna esile e minuta, avvolta nei semplici lini grezzi del vestito dei poveri. Ma quanta forza e quanta soavità in quel volto ormai consunto come una vecchia pergamena! Come ebbe a dire un giornalista: «Madre Teresa è una finestra aperta, e Dio si è affacciato e ha sorriso al mondo».

 L.T.