ANTONIO SOCCI CONTRO PAPA FRANCESCO

Bergoglio identifica la conversione con un “fare”, con un attivismo sociale che abbiamo già visto in America Latina e qui negli anni Settanta in certi gruppi cattolici di sinistra, dove alla fine Cristo si riduceva a “pretesto” per un attivismo sempre più politico e ideologizzato. Invece don Carron percorre la via di un ripiegamento intimistico che toglie alla fede e alla comunità cristiana ogni dinamica umana espressiva e si risolve in quella “scelta religiosa” che decenni fa venne fatta dall’Azione Cattolica e fu sempre combattuta da don Giussani come il suicido del cattolicesimo. Giussani aborrì allo stesso modo la riduzione “sociale” e attivistica del cristianesimo che considerava succube delle ideologie» (Libero, 8 marzo 2015). Questo ha scritto su un giornale ideologizzato il giornalista Antonio Socci, da un po’ di tempo a questa parte attivissimo nel criticare Sua Santità che, a suo modo di vedere, non sarebbe stato eletto legittimamente («Al Conclave è successo di tutto», scrive, sempre sul giornale Libero, il 26 gennaio 2015), e non sarebbe Francesco. Il giornalista accusa in sostanza papa Bergoglio di essere un fautore della cosiddetta teologia della liberazione, “una riflessione teologica iniziata in America latina con la riunione del Consiglio episcopale latino-americano (CELAM) di Medellín (Colombia) del 1968, dopo il Concilio Vaticano II (a margine del quale fu concordato da alcune decine di padri conciliari - molti dei quali brasiliani e latino-americani - il cosiddetto Patto delle catacombe), che tende a porre in evidenza i valori di emancipazione sociale e politica presenti nel messaggio cristiano”. Sempre secondo Socci, il Papa avrebbe poi tirato le orecchie a Comunione e Liberazione. Insomma, il giornalista, fervente cattolico, è un fervente antibergogliano, se così si può dire. Poniamoci una sola domanda, partendo dalla nota parabola del Buon Samaritano: il samaritano si fermò a pregare, mani congiunte, dinanzi al corpo martoriato dell’uomo assalito dai briganti, oppure si diede concretamente da fare, si prese cura di lui con i fatti e non a parole? La risposta la conosciamo tutti: si prese cura di lui, distinguendosi dal levita e dal sacerdote, i quali passarono oltre perché per loro era importante raggiungere Gerusalemme per andare a pregare. La parabola ci parla di un cristianesimo che è vicino coi fatti a chi sta male, con le azioni, oltre che con la preghiera che però, da sola, serve a poco. Difatti, sappiamo anche che la «fede senza le opere è morta» (Gc 2,26) e abbiamo memoria di quanto il Signore dice ad Isaia: «Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1, 15- 17). Del resto, il cristiano viene riconosciuto come tale in forza delle opere di carità che compie, non per il numero di novene, preghiere, sante messe a cui partecipa, spesso ininfluenti ai fini pratici. Socci ha perso l’ennesima occasione per tacere. Non so cosa ci sia di errato nella teologia della liberazione, ma se tale teologia postulasse la liberazione dell’uomo dalle catene della sofferenza e del peccato, io non ci vedrei nulla di male, anzi riterrei che sia pienamente in linea con il messaggio evangelico dell’amore-carità.

Salvatore Bernocco