La preparazione alla celebrazione della Pasqua si è andata progressivamente sviluppando: da un primo nucleo di due giorni di digiuno, chiamato digiuno pasquale, si è passati prima ad una settimana, poi a tre e finalmente a sei settimane: in tutto quaranta giorni prima del triduo pasquale. Da qui il nome di «Quaresima» dato a questa prima domenica, e poi a tutto il periodo. Questo era un tempo di digiuno, a somiglianza dei quaranta giorni di Noè, di Elia, dei quarant’anni del deserto, e soprattutto dei quaranta giorni di Gesù. Siccome però, nei giorni di domenica, che è il giorno della risurrezione, non si digiunava, per assicurarsi quaranta giorni effettivi di digiuno, si è anticipato l’inizio di esso al mercoledì precedente la prima domenica. La celebrazione avveniva a Roma con una processione dalla
chiesa di S. Anastasia a quella di S. Sabina (è l’inizio delle «Stazioni» quaresimali).
Se la prima domenica era l’inizio della preparazione prossima al battesimo, con la «iscrizione del nome» degli eletti, il mercoledì era particolarmente destinato ad iniziare un tempo più rigido per i penitenti, in attesa della riconciliazione, che avrebbe ricevuto il Giovedì santo, a conclusione della Quaresima.
Ce lo attesta il sacramentario Gelasiano, del VII secolo. In questo libro però si parla di «cilizio», ma non propriamente di «ceneri». L’imposizione delle ceneri viene testimoniata, a partire dal sec. X, in Renania, e poco più tardi sarà introdotta a Roma, con rito liturgico. Forse in privato, alcuni cristiani la usavano già da tempo. Tale uso proviene dalla pratica giudaica attestata frequentemente dall’AT (Giosia 7, 6; 2 Sam 13, 19; Ezech. 27, 30; Giobbe 2, 12 42,6; Giona 3, 6; Ester 4, 3). È segno di penitenza e di afflizione.
Introducendolo nella liturgia romana, si è inteso estendere a tutto il popolo un rito che richiamasse l’esigenza della conversione, che per i pubblici penitenti era evidente. Caduta in disuso la pratica della penitenza pubblica, tutto il popolo cristiano si è messo in «stato di penitenza».
Più che fermarsi quindi al segno della «cenere», bisogna cogliere questo spirito di penitenza e di conversione. Da notare subito che si tratta, non di una penitenza individuale in primo luogo, ma di tutta la Chiesa che si mette in stato di penitenza. I «segni» di tale stato sono tradizionalmente tre: la preghiera, il digiuno, l’elemosina (o la pratica della carità, in senso generale). Il Concilio Vaticano II insiste anche sull’ascolto più abbondante della Parola di Dio, e sulle «celebrazioni penitenziali» il mercoledì delle ceneri, in particolare, è giorno di digiuno (come anche il Venerdì santo). Molto spesso i cristiani di oggi rifiutano, come superato, tale digiuno. Per altro verso, oggi si apprezza con valida «protesta» il digiuno di un gruppo o di un singolo. Deve esser considerato il valore di una Chiesa intera che digiuna.
Certo, nel NT, il digiuno ha un senso diverso, come ci indica il vangelo del giorno. Se «gli amici dello sposo non possono digiunare, quando lo sposo è con loro», la Chiesa digiuna perché aspetta la venuta dello Sposo nella notte pasquale. L’atteggiamento penitenziale, necessario alla natura umana nella attuale situazione di peccato, non esclude, anzi postula la necessaria fiducia nella misericordia di Dio, che ci è stata manifestata in Cristo. Da quest’incontro nasce l’esigenza della conversione.
Il nuovo rito della benedizione e della imposizione delle ceneri lo mostra chiaramente. Essa viene fatta dopo la Liturgia della Parola, come risposta ad essa. Lo insinua anche la formula alternativa: «Convertitevi e credete al Vangelo», che può sostituire quella tradizionale: «Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai». I canti della celebrazione insistono sul «rinnovamento» della vita, ma sappiamo bene che solo Dio «fa nuove tutte le cose». È lui che, rinnovandoci, ci ha dato la possibilità e l’impegno di rinnovarci.
I.S.