TALE PADRE (e madre), TALE FIGLIO

Figlio fa rima con padre e madre. C’è poco da girarci intorno: figliolanza ha a che fare con paternità e maternità allo stesso tempo. Se c’è l’una, non possono latitare le altre, pena un’opera incompiuta. Farsi «mettere al mondo» è faccenda maledettamente seria e complicata. Perché non appaltata soltanto all’incontro più o meno casuale di cellule o alla scarica adrenalinica di un attimo. Se, come sembra, servono un padre e una madre che davvero siano tali, e non solo un uomo e una donna, allora a essere coinvolti sono piuttosto desideri, emozioni, progetti, dono reciproco, accoglienza, corporeità, stupore. Di conseguenza, non tutti coloro che procreano sono per ciò stesso genitori, e al contempo non basta nascere «in carne e ossa» per essere figlio. E se è per questo, non si nasce figli una volta sola per tutte, e non si‘è genitori solo in sala parto. Ci vuole una vita intera per essere e l’uno e gli altri! Gesù l’ha spiegato bene all’incredulo e nottambulo Nicodemo: si deve rinascere di continuo, «Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito» (Gv 3,6); che è come dire che essere carne è ancora poco, se non arriviamo a essere spirito nello Spirito. E che Maria è stata mamma di Gesù sotto la croce non meno che nella capanna di Betlemme. E che il falegname Giuseppe non è stato meno papà di Gesù solo perché non ne era il genitore biologico, avendolo comunque educato a una vita buona e bella, e alla fede nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Ed entrambi, papà e mamma, sono stati genitori nel pieno senso della parola, avendolo amato e accettato quale dono di Dio da accogliere, accudire, far crescere responsabilmente e, infine, lasciare andare. Secondo i progetti di Dio su quel figlio, e non secondo i propri disegni di genitori apprensivi e desiderosi di riscatto sociale. Bisogna pure dire che anche Gesù imparò a fare il figlio, sia di Giuseppe e Maria sia del «Padre suo che è nei cieli». E non fu esente da incidenti di percorso (ricordate i tre giorni da dodicenne quando «scomparve» a Gerusalemme senza dir niente a mamma e papà?), né tantomeno da ripensamenti (grande la donna cananea, pagana, che gli fa cambiare idea con la storia del cagnolino e delle briciole!), o da autentiche fatiche (come all’orto degli ulivi). Imparando a 33 anni a essere davvero figlio fidandosi del Padre, non subendone più la volontà come imposizione ma come progetto di vita, e facendo di sé a sua volta un dono per tutti: «Io do la mia vita» (Gv 10,17), e proprio per questo poi mi ritrovo più figlio di prima! Quest’anno perciò ci piace ricordare che il Natale, il nostro Natale di ogni giorno, è faccenda di paternità e maternità non solo fisica, ma anche - come si suol dire - spirituale. Perché tutti noi possiamo crescere assieme a Gesù «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52).

 fra Fabio Scarsato