Lettera di una mamma

Enrico è nato a mezzogiorno di un venerdì. Senza grandi clamori, senza farmi soffrire troppo. Aveva gli occhi chiusi, la lingua penzoloni. Lo guardai e pensai: come è brutto. Ma non ebbi il coraggio di dirlo e dissi: com’è piccino!
Le cose con il tempo non miglioravano.
Tutti sapevano intorno a noi, meno Roberto e io. Ci mandarono da un medico famoso. Quando tornammo a casa rimisi Enrico nella culla, lo guardai e pregai: Signore, Dio dà e Dio toglie: riprenditelo ora. A che serve la sua vita inutile? Non ho mai capito fino in fondo come Roberto abbia reagito, come abbia pregato, come abbia trovato la forza di un abbraccio che mi ha consolato. So per certo che ha pianto pure lui, ma per Enrico ha avuto solo sorrisi e carezze.
Io però ho proprio pregato così: Signore, riprenditi ora questa vita inutile! Da allora continuo a chiedere perdono della mia preghiera orribile, di quel momento disperato. Perdonami Enrico, perdonami. Roberto e io abbiamo imparato che era un figlio come gli altri, solo con problemi diversi. Quando Enrico disse per la prima volta “mamma” abbiamo pianto di gioia, anche se aveva già tre anni. Quando ci correva incontro goffo e barcollante aprivamo le braccia e ci furono istanti di felicità, anche se Enrico aveva già superato i quattro anni. Ci ha insegnato la pazienza.
Quando a quell’epoca nessuno voleva accettare Enrico, né la scuola, né la società, Roberto e io abbiamo imparato ad essere umili, sorridenti, gentili perché qualcuno gli facesse almeno una carezza. Ci ha insegnato l’umiltà.
Quando la gente cominciò ad accorgersi dei bambini segnati da limiti insuperabili, come Enrico e tanti altri, Roberto e io abbiamo cominciato a combattere una battaglia che non è ancora finita, perché Enrico fosse accettato e fossero abbattute le troppe barriere che rendono ancora più difficile una vita non facile. Ci ha insegnato a lottare.
Quando gli altri genitori sognavano per i loro figli il primo posto a scuola, nella carriera, nella società, noi ci accontentavamo dei piccoli progressi di Enrico e che almeno non regredisse. E così Enrico ha insegnato a Roberto e a me a desiderare per i figli la felicità e non la ricchezza e il successo. E’ inutile una vita così?
Dalla Lettera alle famiglie nella prova di

Dionigi Tettamanzi