IL NATALE, VITTORIA DELLA VITA


Diciamo la verità: un po’ ci siamo assuefatti alle ricorrenze. Le diamo per scontate. O le desensibilizziamo: il sentimentalismo non si addice agli adulti, c’è la cruda realtà con cui fare i conti un giorno dopo l’altro. O le odiamo perché ci rivelano il livello di aridità a cui siamo giunti per non avere coltivato lo spirito, la mente, il cuore in modo adeguato. È uno dei paradossi a cui assistiamo: diete, sport, fitness, centri estetici, tutto per il corpo e niente per la parte interiore, là dove si sperimenta la vita o la morte. Siamo nel vortice di una cultura narcisistica di massa che ottunde le menti, rende ciechi e sordi, egoisti e cinici. Ed ecco affacciarsi quella penosa sensazione di vuoto, che si tenta di riempire con droghe, alcol, sesso, eccetera. Senza valori spirituali niente ha più valore. La vita spirituale, così, è più reale delle realtà che viviamo, dà loro un senso, un fondamento, radici profonde.
La preghiera – sento dire - è romanticismo; la novena del Natale e la nenia a Gesù Bambino sono espressioni patetiche di un mondo che non ci appartiene più, lacere tradizioni appartenute ai nostri nonni. Manifestazioni lontane di un popolo di sempliciotti. Eppure l’aridità ci assedia da vicino, anzi da dentro, ed il progresso non può arrestarla. Neppure un pingue conto in banca o l’ennesimo viaggio di piacere o l’ennesimo tradimento può fare molto. La felicità non sa che farsene di tanto denaro, è allergica al molto (qualcuno ha scritto che il diavolo è amico di ogni esagerazione). Lo spirito viene sollevato dai viaggi, fare nuove esperienze è utile e buono, la mente si apre e riceve nuovi stimoli, ma i chilometri percorsi ed i luoghi visitati leniscono il dolore dell’anima senza guarirne le ferite profonde. Soltanto lo Spirito Santo, che è l’amore del Padre e del Figlio, può far sgorgare fiumi di acqua viva, sanare le ferite, sottrarre terreno al deserto interiore, dissetare.
Per lo Spirito, infatti, viviamo e siamo. Ma c’è una condizione da soddisfare: che crediamo che quel bambino che è nato da Maria in una capanna, fuori città, al freddo e al gelo, è il Figlio di Dio, l’Atteso, il Messia.
Da quella nascita apprendiamo una lezione: l’umiltà e la povertà sono gli indicatori della salute dello spirito. Sono le virtù prime. Un cristiano non può che essere umile e riconoscersi povero, bisognoso di ricevere tutto, cioè la vita ed il suo senso, dal suo Creatore. Se le ricchezze materiali fossero state il lasciapassare per la vita eterna, di certo Gesù sarebbe nato in una magione lussuosa, vezzeggiato da stuoli di servitori, e ci avrebbe invitato ad accumulare e ad infischiarcene degli altri. Proprio la novità che i poveri sono la preoccupazione di Dio, in un mondo monopolizzato dai potenti e dai ricchi, ci fa comprendere che egli è veramente Dio. Non una invenzione umana, giacché nessun uomo avrebbe potuto inventarsi una religione per i poveri in un mondo dominato dai ricchi.
C’è ancora una speranza di festa, di letizia, per chi è adulto? O deve rassegnarsi a tirare la vita alla men peggio, a barcamenarsi fra il lavoro e la famiglia, la salute che vacilla e le preoccupazioni quotidiane? Può il Natale essere ancora santo? Direi di sì, purché si accolga lo Spirito di Dio. È come una brezza leggera; è la grazia che purifica; è l’acqua che irriga e disseta; è il fuoco che arde il peccato del mondo. È il sangue di Cristo che, trasfuso in noi con l’Eucaristia, ci libera dall’anemia dell’egoismo, restituendoci ad una vita piena, eterna per la sua qualità.


S. B.