"Il Signore ha bisogno di me"

Miei Cari,

mentre stiamo per riprendere il lavoro del nuovo anno pastorale che si apre dinanzi a noi, con le coordinate che il vescovo don Gino ha tracciato nel recente Convegno diocesano, senza alcuna presunzione ma con tanta fede in Gesù riprendiamo il cammino.
Non v’è dubbio che ogni qualvolta c’è da ricominciare viene di chiedersi: “Ma chi sono io, proprio a me, non mi sento capace?” Anch’io dopo tanti anni mi pongo questo interrogativo. Ma, a risolverlo mi sono imbattuto in un racconto che volentieri trascrivo anche per voi, soprattutto per coloro che sono a me più vicini nell’avviare e nel portare a realizzazione il progetto pastorale diocesano. “Il Signore ha bisogno di me”. È una biblista cinese Maria Ko Ha Fong che ha scritto questo originale racconto che ci dà spunto e ci rincuora nella ripresa. Trascrivo uno stralcio così com’è.
È un asinello che parla.
“In questi giorni sono particolarmente inquieto. Si avvicina la festa di Pasqua. La strada verso Gerusalemme è affollata, quasi caotica. Io sto, come al solito, legato, davanti alla porta. Guardo con un po’ di invidia i cavalli che portano gente ben vestita. Anche i miei compagni asini hanno un’aria di fierezza e di soddisfazione in questi giorni.
Oh, come mi piacerebbe essere nella carovana e andare alla città santa! Cosa non pagherei ad essere slegato… È possibile che in mezzo a quella folla nessuno si accorge di me? Voglio vivere, voglio lavorare, voglio essere qualcuno, voglio essere utile…
Mentre mi sforzo di trattenere le lacrime scorgo vicino a me due uomini mai visti da
queste parti. Dopo avermi esaminato dalla testa alla coda per assicurarsi che non hanno sbagliato, incominciano a slegarmi.
In quel momento esce di casa il mio padrone e chiede ai due stranieri: “Perché slegate questo asinello?”. Essi rispondono; “Il Signore ne ha bisogno”. Il padrone li lascia fare, tanto per lui io non valgo niente.
Io invece, sono rimasto pieno di dubbi e di stupore. Il Signore ha bisogno di me? Ma chi è “il Signore”? Chi può aver bisogno di me, stupido asinello, per di più giovane, inesperto? Come fa a conoscermi? Come mai vuole proprio me?
Non mi rendo conto di quanta strada ho fatto con i due uomini, tanto sono sconvolto e smarrito. Ad un tratto, alzando la testa, trovo davanti a me un volto bellissimo, con uno sguardo mite e buono. Sarà questo “il Signore”, l’uomo che ha bisogno di me?
Avrei voluto guardarlo a lungo per scoprire su quel volto la risposta ai miei tanti interrogativi, per imprimermi nella mente quello sguardo buono e incoraggiante, ma la gente mi spinge da tutte le parti creando grande confusione. Egli sale lentamente su di me e subito gli uomini mi fanno cenno di camminare.
Che emozione! Per la prima volta in vita mia porto su di me un uomo. Si accorgerà il mio Signore? È così bello! Mi sento realizzato, utile. Saprà il Signore su di me quanta gioia mi ha dato? Dove andiamo? A Gerusalemme. Vedo già spuntare le torri della città; vedo le mura maestose e dappertutto tanta gente. Però, che stranezza. La gente invece di camminare verso la città viene verso di noi. Ci viene addosso. Man mano che avanziamo con fatica la gente stende i mantelli per terra componendo un tappeto variopinto. I bambini agitano rami d’albero. Le donne si inginocchiano. Tutti
gridano a gran voce: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna al re
d’Israele!”.
Non potevo immaginare neanche lontanamente uno spettacolo simile. Tutta questa gente è venuta ad accogliere l’uomo seduto su di me e lo chiama re d’Israele.
Re d’Israele? Sì, proprio così. Allora è il Messia! Sono davvero un asino per non averlo capito prima. La profezia di Zaccaria mi balena nella mente: “Ecco il tuo re viene a te, giusto, vittorioso, umile, cavalca un asino”. Ma se egli è il Messia, io …io sono quell’asino! Sono totalmente confuso!
Cosa è capitato poi al Messia, mio Signore? Non ho bisogno di raccontarvi. Lo sapete già dai libri scritti dai suoi discepoli. Quanto a me non so che dire. Le parole si rivelano povere e inadeguate quando si è in contatto con il mistero.
Vedendo il mio Signore inghiottito dalla folla alla porta del tempio, ho capito che non lo avrei più rivisto. Egli non avrà più bisogno di me per il viaggio di ritorno. Quel mio famoso antenato, l’asino di Abramo, ebbe la gioia di riportare a casa Isacco; io, invece, non lo riporterò indietro il mio Signore. Dio ha risparmiato il figlio di Abramo ma non risparmia il proprio figlio.
Pochi minuti fa ho portato su di me il mio Signore, d’ora in poi lo porterò dentro di me, per sempre. Egli ha avuto bisogno di me per andare a Gerusalemme, ora HA ANCORA BISOGNO DI ME perché io gli renda testimonianza da Gerusalemme fino agli estremi confini della terra (cf At 1,8). È per questo che esisto. Egli mi conosceva e mi amava prima che io nascessi. Fin dall’eternità mi ha pensato e mi ha assegnato un posto nella storia. Ha fatto preannunciare dai profeti la mia missione. Ha guardato alla mia povertà e nullità. Mi ha fatto slegare e mi ha fatto condurre a sé per realizzare insieme a Lui una promessa. Mi ha fatto diventare portatore del suo Figlio, suo collaboratore per salvare il mondo.
Se Dio ha avuto bisogno di uno stupido asino, quanto più ha bisogno di voi, o uomini
intelligenti, che ascoltate la mia storia!”

Cos’altro si può aggiungere? Buon lavoro e avanti tutta.

Cordialmente, Don Vincenzo

LA RELAZIONALITA’: VIA DELLA SPERANZA

Dopo l’interiorità, mons. Martella inaugura la seconda tappa del progetto “Con Cristo sui sentieri della speranza” dedicata alla relazionalità

Trentanove pagine dedicate ai giovani, “a quelli vicini e a quelli lontani”. Il nostro Vescovo dedica la sua lettera pastorale “La relazionalità: via della speranza” proprio a loro, ai più giovani, con i quali vuole costruire “un cammino di speranza, attraverso la qualità delle relazioni umane ispirate alla fede e alla testimonianza cristiana”. I giovani hanno dalla loro parte l’età, la gioventù, ma sono i più esposti ai colpi sordidi di questa civiltà pansessualizzante e portata al consumo di ogni cosa e di ogni sentimento. Gli stessi rapporti umani sono diventati un tanto distanti e distaccati, e non tragga in inganno l’estrema facilità con cui oggi ci si può scambiare in tempo reale messaggi attraverso l’uso di Internet o del cellulare.
A tale facilità non corrisponde un’altrettanta qualità delle relazioni, né una vittoria sulla solitudine. Lo sostiene mons. Martella quando scrive che “il mondo sembra un insieme enorme di solitudini. [...] nell’epoca dei mezzi di comunicazione, sempre più sofisticati ed innovativi, aumentano le solitudini, perché aumenta il deficit di comunicazione.” La speranza non può affermarsi in un mondo che comunica in questo modo poco comunicante, che galleggia su messaggi tipo spot pubblicitari, che si affida ai sensi piuttosto che al senso del cuore, ad una speranza che sia in grado di liberare e liberando di creare relazioni vere, durature e per ciò significative. I sensi sono sessualizzati, ed il cuore ne porta le ferite, trascinandosi stancamente da una delusione ad una nuova illusione. La speranza cristiana, che è una speranza di felicità attuale nel Cristo dei vangeli, è obnubilata nonostante essa sia comunicazione e relazione al massimo grado. Tuttavia, anche la comunità cristiana non è immune da crisi di speranza, una sorta di riverbero opaco che su di essa si riflette del più grave e diffuso male del secolo, il cancro dell’anima, l’eclissi totale della speranza, la depressione.
Anche la comunità dei credenti crede meno, forse, ed in questo deficit di fede si annida l’incapacità di andare oltre gli stereotipi e certo ritualismo che sa di muffa, di comunicare un Dio che è vivo e che agisce nella storia, a fianco di ogni uomo di buona volontà, per finalità di bene e di speranza.
Ogni relazione deve aprirsi all’amore di Dio.
Ogni relazione presuppone una capacità di comunicare profondamente, da essenza ad essenza. Ogni relazione deve creare più relazione ed ampliare i nostri orizzonti, spostandoli in avanti, in direzione delle nuove terre e dei cieli nuovi isaitici. Proprio perché Dio è un esempio unico di relazione, è Uno e Trino nel contempo, e proprio in ragione del fatto che egli si comunica all’umanità attraverso il suo spirito, il cristiano dovrebbe essere avvantaggiato nell’opera di comunicare la speranza che non muore, uno specialista nell’arte di comunicare la speranza e l’amore.
Non sempre è così, alcune volte a causa dei contenuti che non ci sono, altre volte perché difetta la capacità di comunicare il vero, altre volte ancora perché manca il buon esempio, che da solo varrebbe cento prediche.
Mons. Martella scrive che “il cristianesimo non è un lasciare, ma un trovare. Non è la religione del no, è la religione del sì, come ripetutamente ci ricorda Benedetto XVI.” Bene, è da questa asserzione che occorre prendere le mosse per risuscitare la speranza cristiana e generare frutti copiosi di buone relazioni. La religione del sì, la fede nel sì definitivo e fedele del Signore, il quale non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. La religione della felicità, perché sia chiaro una volta per tutte che il Signore non è un dispensatore di croci e sofferenze, ma di benedizioni, non è un dio pagano, geloso della felicità delle sue creature, ma un Dio che la promuove e che si prende cura dei suoi figli. Se si riuscisse a comunicare questa importante novità, a riportarla alla luce, scrostandola da anni di verbosità e tarli, ritualismi insignificanti, paure immotivate, inferni dispensati a man bassa per presunti peccati, beh, allora la speranza cristiana splenderebbe nel
mondo e la relazione con noi stessi, con Dio e con gli altri non avrebbe più bisogno di interessanti teorizzazioni e di tecniche. Basterebbe l’incontro, di tanto in tanto, con un cristiano felice di esserlo.

Il Maestro Michele Cantatore

5 Ottobre: Ricordando
il M ° Michele Cantatore
“mistica in canto”
nel 2° Anniversario della sua pia morte




A due anni dalla scomparsa del Maestro Michele Cantatore, è lecito e doveroso continuare a riflettere sul suo servizio pastorale offerto con dedizione e abnegazione alla comunità cristiana di Ruvo di Puglia, attraverso una particolare concezione della musica e del canto.
Vorrei parlare del suo pensiero musicale ribadendo un concetto più volte ripetuto: il Maestro è stato ciò che ha cantato, composto, suonato – cioè ha fuso magnificamente la musica alla vita, la vita all’arte. Questa caratteristica di fusione tra vita ed arte, tra vita e musica, e potremmo dire anche tra parola e suono, non è tuttavia una peculiarità del Maestro, o quanto meno non è nuova nella storia della musica. Infatti, immaginando per un attimo di spostarci in un’altra epoca, il Medioevo, è facile trovare una concezione di vita molto simile alla sua: nel Medioevo ( e in particolare il Medioevo inteso fino a circa il IX sec. d.C.), la musica e il suo insegnamento occuparono un ruolo centrale nella vita quotidiana, nell’educazione e soprattutto nel culto e nella pratica religiosa, nonché nella catechesi. Nel Medioevo il musicus, riprendendo un’idea del filosofo Platone, non era colui che sapeva cantare o suonare, ma colui che sapeva accordare, anche in senso musicale, l’arte che praticava alla vita che conduceva, in un connubio inscindibile. La musica non era una professione, ma era la vita stessa: mi pare che il Maestro abbia avuto, senza dubbio, questa particolare caratteristica.
Inoltre in questo periodo, la musica era “la prima fra le arti”, agli antipodi della odierna concezione, per cui nella vita moderna la musica, spesso anche quella sacra, e relegata nell’ambito del “divertimento”, del “consumo” e del “commercio”, cosa ben lontana dalla funzione didattica e ascetica che la musica ricoprì nel Medioevo in Occidente, e ancora oggi diffusamente in Oriente. In breve, il Maestro, forte della fusione tra musica e vita, di cui si parlava prima, scriveva con intento didatticocatechetico: la musica era da lui reputata strumento privilegiato per avvicinarsi a Dio, alla Verità trascendente, e mai per esporre il suo pensiero individuale e la sua bravura artistica. Questi principi ci permettono di comprendere la sua precisa scelta stilistica ed estetica; non ci fanno cadere nella tentazione di sottovalutare la reale portata del suo operato; inoltre ci offrono la possibilità di individuare alcuni “modelli” musicali a cui il Maestro si è evidentemente ispirato.
In primo luogo emerge l’adesione quasi passionale ed incondizionata al canto cristiano medievale(quello che comunemente ma impropriamente viene chiamato gregoriano) monodico, cioè ad una voce senza accompagnamento strumentale, fino alle prime forme di polifonia scritta databili tra X e XI sec., che caratterizzano il suo ormai inconfondibile “stile pre-polifonico” Poiché il Maestro Cantatore è stato in primis un profondo studioso e conoscitore delle tecniche compositive e della prassi esecutiva del canto cristiano, egli ha fatto suo questo splendido repertorio, attingendo ad esso come ad una vera fonte di ispirazione prima di tutto spirituale e poi musicale. Secondo il pensiero dei Padri della Chiesa, e in particolare di Agostino, il canto dei primi cristiani era ritenuto ispirato dallo Spirito Santo, sia per quanto riguarda il testo che per quanto riguarda la melodia. Il canto costituisce l’unica lode innalzabile alla divinità; nel quale la Parola ispirata si accorda allo spiritus, al fiato emerso dalla voce umana, alludendo alle “nozze mistiche” tra Spirito (Pneuma) e Anima (Psiche). Ecco la fusione tra parola e suono di cui è degno rappresentante fuori epoca, Michele Cantatore. La musica, allora, per i primi cristiani non era per nulla considerata un elemento accessorio, volto a conferire solennità alla liturgia, bensì come parte integrante del rito: e in questo notiamo una straordinaria somiglianza con la concezione che ha avuto della musica il Maestro: la consonanza dei suoni e dei ritmi verbali simboleggia e prepara realmente l’unione tra Spirito (divino) e Anima (umana). Possiamo quindi cogliere uno degli aspetti fondamentali dell’opera del Maestro: recuperare il senso originario ed originale del canto liturgico, non come ornamento del culto o come arte in sé, ma nel suo profondo valore mistico: il canto manifesta la “presenza sonora” di Dio; la parola sonora come simbolo dello Spirito divino, ponte teso tra l’Umano (finito e mortale) e il Divino (infinito ed immortale). Ecco allora che il canto liturgico cristiano nella sua natura profonda non è musica, ma è preghiera, e come tale, vuole essere eseguito come espressione di fede orante. Il fine di questa musica non è l’intrattenimento sociale e la gratificazione emotiva bensì un’esperienza di fede
vissuta. Perciò al cantore Michele Cantatore richiede in primo luogo la capacità di pregare in adorazione e nel silenzio interiore, nella dimenticanza del puro evento musicale. La preghiera liturgica cantata trova la sua sincerità non nel fatto che si canta ciò che si pensa, ma nel fatto che si cerca di pensare ciò che si canta: e il
Maestro evidentemente, ha realizzato questo principio in modo esemplare.
Un altro aspetto riconoscibile nell’opera di cantatore è, al pari del mondo gregoriano, la completa assenza di ogni forma di protagonismo mondano. Nell’atto compositivo egli si è ispirato spesso a materiale già presente nel repertorio sacro (formule melodiche, formule musicali, tecniche compositive, ecc.) e ha rispettato con venerazione lo stile dei singoli brani, così come facevano i compositori del canto cristiano (ancora oggi rimasti del tutto anonimo). Forse anche per questo egli non ha mai voluto pubblicare le sue opere, rimanendo in una forma di anonimato e di intimismo molto personali. Non ci si deve meravigliare, perciò, nel constatare che l’inventiva personale, caratterizzante le sue melodie, non si sia sbizzarrita nel trovare cose sempre nuove ed originali. Ecco perché alcune sue composizioni possono sembrare banali e scontate. Invece, secondo una mentalità tipicamente “gregoriana”, il vero Maestro è colui che sa coniugare la propria esperienza personale con gli
schemi tramandati dal passato.
Dicevo all’inizio che l’ambito storico di riferimento di Cantatore può essere collocato grossomodo fino al X - XI secolo, periodo in cui comincia a diffondersi la scrittura musicale sul rigo. L’invenzione del rigo musicale porterà, in breve, allo sviluppo della polifonia scritta che, man mano, diventerà sempre più complessa. Al canto cristiano i compositori faranno sempre riferimento, ma per costruire imponenti architetture musicali, con tante voci, riservate ad esecutori molto preparati. Questo tipo di musica sacra aveva come luogo esclusivo di esecuzione le grandi basiliche, le cappelle principesche, le corti, ecc. E’ chiaro quindi che, in questi contesti, la funzione della musica sacra è cambiata: non più esperienza di fede vissuta,preghiera in musica, ma sfoggio di erudizione, di competenza tecnica: una composizione era tanto più apprezzata quanto più era complessa. Inoltre era finito l’anonimato: il nome del compositore dove comparire sulla parte musicale insieme al nome del vescovo o del principe presso cui operava.
E’ evidente che egli a questo tipo di musica e di contesto sociale, non ha volutamente aderito, cercando invece di recuperare l’idea originaria di musica sacra suddetta, di qui anche l’uso del Luca Campanale termine “stile pre-polifonico”. Pur conoscendo le grandi forme polifoniche della musica sacra d’arte e lo stile di questi autori, egli ha composto invece secondo una corrente di pensiero musicale che potremmo definire popolare, meno artefatta, più vicina al sentimento religioso della gente umile e della semplice devozione popolare, sempre secondo il suo intento didattico-catechetico. Nei suoi brani infatti egli ha utilizzato tutte quelle forme musicali - come la Messa Cantilena, il Conductus polifonico, la Sacra Canzonetta, la Lauda, l’Oratorio tardo-cinquecentesco, il Corale - che all’inizio erano nate con l’intendo di ritornare a quella fusione originaria tra parola e suono, tra Spirito e anima, di cui si è parlato, e nelle quali la musica serviva ad amplificare la preghiera, per cui il testo sacro veniva sopportato da una musica appropriata per renderlo più comprensibile e favorire la preghiera e la contemplazione. Si tratta di forme musicali semplici nel loro originario pensiero compositivo - ma che poi i grandi compositori le hanno utilizzate per creare dei complessi capolavori d’arte sacra – nelle quali la polifonia presente è molto semplice: la voce superiore è sempre un po’ predominante, mentre le altre voci la sostengono, cantando in parallelo o con movimenti contrappuntistici ridotti al minimo. E’ chiaro che l’idea estetica alla base di questi brani non è quella di creare un’opera d’arte eseguibile da pochi addetti ai lavori e in modo da lasciare sbalorditi gli ascoltatori; ma al contrario, in questi brani c’è posto per tutti, chiunque potrebbe cantarli, perché le melodie sono costruite in modo tale da favorirne l’apprendimento anche di chi non conosce la musica, ma che ha voglia di pregare cantando.
E’ questa l’estetica sui generis di Michele Cantatore: comporre per far cantare tutti, non per puro diletto, ma per pregare. E sappiamo bene quanto egli ci tenesse a far cantare l’assemblea durante la celebrazione della Messa, ad esempio. Ecco allora l’utilizzo di tutte quelle forme che erano nate con questi ideali, ma che durante la storia della musica hanno cambiato funzione e concezione, e il conseguente recupero da parte sua in un’ottica devozionale, con finalità didattico-catechetiche: il canto come manifestazione della presenza divina; la musica come invito alla preghiera e alla contemplazione collettiva.

Luca Campanale

Nel Mese

Si è dato inizio ad alcuni incontri informali per l’impostazione del lavoro pastorale del prossimo anno. Il tutto poi è stato varato tenendo presente le linee pastorali offerteci dal vescovo don Gino durante il Convegno diocesano che ha registrato la presenza di un folto gruppo di nostri animatori,catechisti e membri del Cammino Neocatecumenale.
A costoro il parroco ha consegnato la lettera pastorale del vescovo perché si possa riflettere su quanto ci è stato proposto e attuarlo di conseguenza. Una partecipazione numerosa si è registrata per il triduo e la festa di S. Pio, preceduta dalla veglia con l’adorazione, la recita del rosario,la Messa vigiliare. Il 23 settembre ha presieduto fra’ Stefano Dal Maschio: c’è stato anche un momento di festa esterna. L’adorazione mensile si è tenuta come sempre, animata dal gruppo della Riparazione Eucaristica che si appresta nel prossimo novembre a celebrare il suo XXV di fondazione.
Come ogni anno poi, il Volontariato Vincenziano ha curato la festa di S.Vincenzo de Paoli e la Gioventù Mariana ha eseguito canti scelti e la messa della “S. Famiglia” del M° M. Cantatore. Il 29 è stato poi ricordato il defunto don Michele, mentre il parroco ha partecipato nella Basilica di S. Pietro in Vaticano alla Consacrazione Episcopale di Mons. Tommaso Caputo, Nunzio Apostolico in Malta e Libia e amico della nostra comunità.

Luca