Dopo l’interiorità, mons. Martella inaugura la seconda tappa del progetto “Con Cristo sui sentieri della speranza” dedicata alla relazionalità
Trentanove pagine dedicate ai giovani, “a quelli vicini e a quelli lontani”. Il nostro Vescovo dedica la sua lettera pastorale “La relazionalità: via della speranza” proprio a loro, ai più giovani, con i quali vuole costruire “un cammino di speranza, attraverso la qualità delle relazioni umane ispirate alla fede e alla testimonianza cristiana”. I giovani hanno dalla loro parte l’età, la gioventù, ma sono i più esposti ai colpi sordidi di questa civiltà pansessualizzante e portata al consumo di ogni cosa e di ogni sentimento. Gli stessi rapporti umani sono diventati un tanto distanti e distaccati, e non tragga in inganno l’estrema facilità con cui oggi ci si può scambiare in tempo reale messaggi attraverso l’uso di Internet o del cellulare.
A tale facilità non corrisponde un’altrettanta qualità delle relazioni, né una vittoria sulla solitudine. Lo sostiene mons. Martella quando scrive che “il mondo sembra un insieme enorme di solitudini. [...] nell’epoca dei mezzi di comunicazione, sempre più sofisticati ed innovativi, aumentano le solitudini, perché aumenta il deficit di comunicazione.” La speranza non può affermarsi in un mondo che comunica in questo modo poco comunicante, che galleggia su messaggi tipo spot pubblicitari, che si affida ai sensi piuttosto che al senso del cuore, ad una speranza che sia in grado di liberare e liberando di creare relazioni vere, durature e per ciò significative. I sensi sono sessualizzati, ed il cuore ne porta le ferite, trascinandosi stancamente da una delusione ad una nuova illusione. La speranza cristiana, che è una speranza di felicità attuale nel Cristo dei vangeli, è obnubilata nonostante essa sia comunicazione e relazione al massimo grado. Tuttavia, anche la comunità cristiana non è immune da crisi di speranza, una sorta di riverbero opaco che su di essa si riflette del più grave e diffuso male del secolo, il cancro dell’anima, l’eclissi totale della speranza, la depressione.
Anche la comunità dei credenti crede meno, forse, ed in questo deficit di fede si annida l’incapacità di andare oltre gli stereotipi e certo ritualismo che sa di muffa, di comunicare un Dio che è vivo e che agisce nella storia, a fianco di ogni uomo di buona volontà, per finalità di bene e di speranza.
Ogni relazione deve aprirsi all’amore di Dio.
Ogni relazione presuppone una capacità di comunicare profondamente, da essenza ad essenza. Ogni relazione deve creare più relazione ed ampliare i nostri orizzonti, spostandoli in avanti, in direzione delle nuove terre e dei cieli nuovi isaitici. Proprio perché Dio è un esempio unico di relazione, è Uno e Trino nel contempo, e proprio in ragione del fatto che egli si comunica all’umanità attraverso il suo spirito, il cristiano dovrebbe essere avvantaggiato nell’opera di comunicare la speranza che non muore, uno specialista nell’arte di comunicare la speranza e l’amore.
Non sempre è così, alcune volte a causa dei contenuti che non ci sono, altre volte perché difetta la capacità di comunicare il vero, altre volte ancora perché manca il buon esempio, che da solo varrebbe cento prediche.
Mons. Martella scrive che “il cristianesimo non è un lasciare, ma un trovare. Non è la religione del no, è la religione del sì, come ripetutamente ci ricorda Benedetto XVI.” Bene, è da questa asserzione che occorre prendere le mosse per risuscitare la speranza cristiana e generare frutti copiosi di buone relazioni. La religione del sì, la fede nel sì definitivo e fedele del Signore, il quale non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. La religione della felicità, perché sia chiaro una volta per tutte che il Signore non è un dispensatore di croci e sofferenze, ma di benedizioni, non è un dio pagano, geloso della felicità delle sue creature, ma un Dio che la promuove e che si prende cura dei suoi figli. Se si riuscisse a comunicare questa importante novità, a riportarla alla luce, scrostandola da anni di verbosità e tarli, ritualismi insignificanti, paure immotivate, inferni dispensati a man bassa per presunti peccati, beh, allora la speranza cristiana splenderebbe nel
mondo e la relazione con noi stessi, con Dio e con gli altri non avrebbe più bisogno di interessanti teorizzazioni e di tecniche. Basterebbe l’incontro, di tanto in tanto, con un cristiano felice di esserlo.