Pochi giorni ci separano dal 2008, che speriamo sia un anno migliore per il nostro paese, segnato
da un andazzo che lascia perplessi, talvolta increduli quando non rassegnati. Diciamo subito che la rassegnazione è un sentimento da evitare con cura, perché inclina al nero, cioè ad un pessimismo senza via d’uscita, ad una sorta di depressione collettiva. Per il rassegnato “non c’è più nulla da fare, nulla è destinato a cambiare, tutto è fermo”.
L’incredulità invece nasce in un animo ancora aperto alla speranza, fondamentalmente ottimista, capace ancora di provare meraviglia. L’incredulo ruvese si domanda esterrefatto se ciò che capita nel suo paese (rectius: non capita) sia vero o frutto della sua fervida fantasia oppure il risultato della generale rassegnazione.
Come mai a Ruvo non capita mai niente? Come mai non si avverte un desiderio si riscatto, di rivincita, di rinascita? Come mai si respira un’aria malsana o di ritirata? E chi l’ha suonata? Sono le domande che si pone l’incredulo, che, essendo anche un po’ingenuo, resta a bocca aperta dinanzi alla montante marea dei “nulla di fatto”, dei rinvii, delle promesse non mantenute, delle incapacità ed inettitudini, delle lamentazioni che riecheggiano quelle bibliche di Giobbe. I perplessi invece appartengono alla schiera dei dubbiosi, e si sa che il dubbio è il padre della filosofia, laddove la meraviglia ne sarebbe la genitrice. I perplessi filosofano, discettano, argomentano, additano al pubblico ludibrio o quello a seconda dell’umore o della propria
convenienza. Talvolta partoriscono qualche buona idea che, a causa della tendenza dubitativa e cogitabonda, subito si dilegua nell’aere circostante. Per darsi un tono spesso dicono di essere dei progettisti, di avere idee avanzate e progressiste, ma in realtà sono profeti dell’incertezza e della paralisi. Difatti, perplesso è sinonimo di incerto, e dagli incerti, anche quando per mero caso dovessero trovarsi a fare politica, non bisogna aspettarsi granché. Prima di muovere un passo devono avere ottenuto ampie rassicurazioni, devono essersi cinti i fianchi di consigli e cautele, salvo poi pentirsene quasi subito. Spesso vengono indicati con l’espressione di “tenutari delle carte a posto”. A scanso di equivoci gli integerrimi tenutari della legalità (formale) non appartengono solo al mondo della burocrazia o della politica, ma anche alla società o a quella parte di essa che esibisce un ordine esteriore, o almeno una sua parvenza, mentre all’interno è tutto un brulicare di vermi ed una fermentazione di putridume.
Più o meno in questi termini Gesù si rivolse ai farisei e ai dottori della legge, depositari, appunto, ed interpreti rigorosi di una legge formale, fatta di centinaia di prescrizioni e divieti, a cui non corrispondeva nessuna forma di amore concreto per il prossimo, quindi qualcosa di realmente positivo. Li definì “ipocriti”, una parola che proviene dal greco e che significa “attore”.
I teorici della massima legalità (formale) sono i migliori attori ma i peggiori nemici dell’uomo e delle comunità umane. Come mai allora a Ruvo c’è questo andazzo generale, che è cosa diversa da un normale andamento delle cose e della vita politica e sociale? Come mai nel nostro paese si ricorre all’anonimato per calunniare gli avversari politici? Come mai - ma questa è una metafora – nei pressi della Posta centrale c’è un segnale stradale che indica l’imbocco di un autostrada laddove c’è solo un dedalo di vie cittadine? A Ruvo autostrade non ce ne sono, ci sono semmai vie e viuzze secondarie, molte delle quali fatte a groviera, alcune rattoppate alla meglio. È appunto una metafora della condizione culturale in cui versa il nostro paese, che non dovrebbe dimenticare quanto detto da Gesù a proposito dei rattoppi o del vino nuovo in otri vecchi: i rattoppi lacerano gli abiti, il vino nuovo necessita di otri nuovi. Quindi, perché questo andazzo? Semplicemente perché non si va più alla sostanza delle cose o al merito, si è superficiali, ci si trincera dietro la montagna delle carte, dei codici, dei commi e dei regolamenti, spesso contraddittori fra loro, non si semplifica (semplificazione non vuol dire libertinaggio), si ama meno la propria comunità, ci si preoccupa esclusivamente di far tornare la sostanza dei propri conti. Tutto il resto, quindi tutto il meglio, viene purtroppo consegnato al formalismo delle leggi, alle dispute infinite dei perplessi di professione, ai profeti dell’incertezza e agli specialisti del rinvio, affinché, con le loro specifiche competenze ed inclinazioni, ne traggano abbondanti e capziose ragioni per frenare la crescita civile, culturale, sociale ed economica della città.
Salvatore Bernocco