Facciamo un salto nell’aldilà


Ve lo immaginate un San Francesco che grida:”Voglio mandarvi tutti in Paradiso” ?
Questa è la ragione del Perdono di Assisi.
Una provvidenza inattesa e straordinaria al pensiero che qualcuno avrebbe dovuto affrontare il rischio e il pericolo mortale di una crociata per avere l’anima ripulita e pronta per la via del paradiso. Così andavano le cose all’inizio del 1200…

“Tutti in paradiso” gridato oggi non so che effetto avrebbe, certamente un po’ diverso da quello del passato.
Oggi, è ormai risaputo: paradiso, inferno, purgatorio patiscono di un tale grado di incredulità da scomparire dalla coscienza della maggior parte dei cosiddetti cristiani. Ne hanno dato conferma alcuni anni fa i nostri vescovi nel documento “Comunicare il vangelo in un mondo che cambia”: “È offuscato,se non addirittura scomparso nella nostra cultura, l’orizzonte escatologico, l’idea che la storia abbia una direzione, che sia incamminata verso una pienezza che va al di là di essa. Tale eclissi si manifesta a volte negli stessi ambienti ecclesiastici, se è vero che a fatica si trovano le parole per parlare delle realtà ultime e della vita eterna”. Il problema più serio non è nel linguaggio o nel fatto che queste realtà siano scomparse perché rifiutate o combattute ostinatamente dagli atei o dai miscredenti di una volta che profondevano le loro energie a negare l’esistenza di Dio, finendo poi con il diventare tenaci assertori, perché non si combatte ciò che non esiste.
No, oggi, purtroppo tutto viene lasciato cadere nell’insignificanza o nell’indifferenza
senza battere ciglio: non interessa e per questo non si crede. Parte di responsabilità di questa situazione va attribuita alle predicazioni che tendevano a provocare terrore e tremore: le fiamme dell’inferno, le orme di impronte bruciate dalle anime del purgatorio, il terribile Dies Irae, il giorno del giudizio, reso così bene nel Requiem di Verdi con il possente e inquietante suono delle trombe e dalla fantasia pittorica di Michelangelo nella Sistina, di Signorelli nel duomo di Orvieto…
I teologi di questi ultimi tempi hanno fatto notevoli tentativi per correggere il tiro e suscitare
interesse, presentando un’aldilà meno inquietante e più coinvolgente, un’aldilà come continuità
alle scelte di vita che stiano operando oggi, purificato da ombre tenebrose e illuminato da una giusta luce. Ne danno un saggio i vescovi sempre nel documento sopraccitato, in un passaggio
dedicato alle verità della vita eterna non parlano né di purgatorio né di inferno. Nel primo caso (purgatorio) sviluppano il concetto di purificazione, perché non si tratta di un luogo, ma di uno stato d’essere, che potrebbe concludersi con lo stesso istante dello morte e dell’incontro con Cristo.
Non anni di purgatorio, come si diceva una volta misurando il tempo di Dio con i nostri calendari, del resto dopo la morte non esistono più le categorie del tempo e dello spazio, ma istanti intensi di attesa dell’amore di Dio, con la sofferenza di non aver corrisposto pienamente.
Più anticamera del paradiso con lo stato di attesa (purificazione) che inferno dimezzato, come risultava dalle trame oratorie di predicatori di grido. Anche l’inferno non è luogo, quindi niente fiamme che bruciano. Se si prende familiarità con il linguaggio biblico si ha una comprensione diversa. L’inferno è visto come seconda morte. Esiste non come espressione della punizione e dell’ira di Dio, ma perché l’uomo lo rende tale, perché vuole escludersi totalmente dalla comunicazione con Dio.
Dio e spettatore rispettoso, ma impotente e addolorato, perché la libertà dell’uomo gli ha legato le mani. Nella versione tedesca del catechismo cattolico viene posto questo interrogativo: “Se Dio alla fine accogliesse nel suo regno anche coloro che si sono definitivamente dichiarati contro di lui, verrebbe ancora in tal modo garantita la libertà e quindi la dignità dell’uomo?” . Bella domanda!
Del resto, coloro che si dichiarano definitivamente contro Dio si sono creati quaggiù il loro inferno, perché incapaci di amare e di farsi amare, insensibili al bene e al bello, ripiegati iniquamente su se stessi e la loro egoistica e insaziabile avidità. Tale situazione getta una luce consolante sulle debolezze umane che non sono mai rifiuti cinici e definitivi dell’Amore, ma, appunto, solo fragilità e debolezze. Dunque,l’inferno non come castigo, ma come conseguenza di una libera scelta. Non pene o tormenti inflitti da Dio, ma unicamente il vuoto, l’infelicità, le tenebre senza fine di chi ha rifiutato sempre l’amore misericordioso. In proposito si avverte la necessità e l’urgenza di modificare il linguaggio dell’atto di dolore in cui si continua a recitare di “ aver meritato i castighi” di Dio.
E le fiamme dell’inferno che tanto hanno infuocato la fantasia di generazioni di predicatori e di pittori non provengono forse dal linguaggio biblico? Il fuoco è solo un’immagine e l’immagine non può essere scambiata con la realtà. Una foto mi richiama una persona, un evento, ma in definitiva rimane sempre un pezzo di carta, non è la persona. Con la sua forza immaginifica il fuoco vuole semplicemente significare che anche la creazione esterna collabora, aggravandolo sulla linea della corporeità, allo stato di infelicità totale di colui che si è volutamente escluso dal paradiso , quindi dalla vita, dall’incontro, dalla gioia, dall’amore, in definitiva da Dio che è tutto il bene, il sommo bene, l’unico bene. A questo punto forse qualche lettore si potrà rammaricare perché tale visione delle realtà ultime può indurre ad un lassismo sfrenato, tolta la paura dell’inferno si può fare quello che si vuole, tanto Dio è buono.
Innanzitutto volere una “ giusta” condanna per chi è in errore non fa parte del cuore di Dio e quindi nemmeno per chi vive di Lui: si deve volere il bene degli altri non la condanna. E “poi fare quello che si vuole ” , non toglie nulla a Dio, ma molto alla nostra piena realizzazione, alla nostra felicità, a noi stessi. Insomma non si imbroglia Dio, ma unicamente se stessi. Si potrebbe al più pensare che nella propria vita c’è sempre un angolo riservato a Dio e al momento opportuno ci si può rifugiare per salvarsi…È un ragionamento subdolo e pericoloso. Infatti chi di noi è in grado di sapere quando subentra nella nostra vita al rifiuto o all’essenza di Dio il momento del ritorno a Lui? Il rifiuto può essere una scelta ideologica o aprioristica, a cui può far seguito però una coerenza morale onesta e retta, in tal caso sarà Dio a giudicare. Ma può essere anche un indurimento del cuore provocato da un continuo ripetersi di peccati che rende impossibile il ritorno a Dio. Un cuore di pietra ormai incapace di pulsare e di amare. È il peccato che porta alla “seconda” morte. Non dimentichiamo che la Scrittura abbonda di testi che aprono ad una speranza illimitata e che raccontano dell’infinita misericordia di Dio; la stessa Scrittura ci pone di fronte alla possibilità reale della nostra perdizione. Non scherzare con il fuoco è una prudenza quanto mai opportuna da coltivare.


da il “cavaliere dell’Immacolata”