LA LEZIONE POLITICA DI ALDO MORO
Cosa resta della lezione politica di Aldo Moro a distanza di trent’anni dalla barbara uccisione degli uomini della sua scorta (Zizzi, Leonardi, Rivera, Jozzino, Ricci) e dal suo assassinio? È ancora attuale parlarne? Può essere ancora punto di riferimento culturale, morale e politico per gli uomini e le donne che vogliano dedicarsi alla res publica? La strategia dell’attenzione e le convergenze democratiche (non parallele, Moro non ne parlò mai, l’espressione fu coniata da Eugenio Scalfari) vanno contestualizzate, collocate nel contesto storico dell’epoca.
Allora avevano un senso ed una portata politici, in presenza in Italia di un forte Partito comunista che, nel 1976, aveva quasi operato il sorpasso sulla Democrazia cristiana. Il mondo era diviso in due blocchi, da un lato c’erano i Paesi del Patto Atlantico, dall’altra quelli del Patto di Varsavia. Moro aprì prima al Partito socialista, poi al Partito comunista poiché voleva consolidare le basi della democrazia in Italia, attribuendo alla sua politica una prospettiva ed una funzione che oggi chiameremmo “progressiste”. Di certo c’è che Moro non era un uomo di sinistra, come si è talvolta insinuato (una statua lo ritrae finanche con una copia del giornale L’Unità), ma un democratico coerente ed un antitotalitario. Del resto, questa era la politica della D.c., “la lotta su due fronti, la individuazione di una minaccia totalitaria anche sulla destra dello schieramento politico”(27 gennaio 1962, Congresso di Napoli), il che, tra l’altro, avrebbe reso centrale il ruolo della D.c. e svuotato di ragioni, di forza e di contenuti l’opposizione comunista. Se la politica inclina a destra, si accentua il progresso della sinistra, mentre una politica lungimirante, aperta al nuovo ed alle istanze sociali, non rancorosa né aspra, avrebbe reso possibile l’ampliamento progressivo delle basi democratiche dell’Italia, traghettato il comunismo nostrano su sponde socialdemocratiche, sbloccato la democrazia italiana, dove l’alternanza al governo, con la conseguente rigenerazione nel ruolo oppositivo, era preclusa. La nostra era una democrazia bloccata a causa della politica internazionale, divisa in due blocchi contrapposti. Forse l’aver forzato la mano alla storia ne decretò la tragica fine. Le eminenze grigie della politica internazionale non potevano consentire simili sviluppi. Ne è sinistra conferma che in Via Fani, quel terribile 16 marzo 1978, assistettero (o parteciparono?) al rapimento di Moro uomini dei servizi segreti di mezzo mondo, e si fece persino l’ipotesi, altrettanto inquietante, che Moro fosse stato segregato a Roma nell’ambasciata di un Paese dell’Est.
Una politica nel segno della moderazione, quindi, del confronto, del dialogo, dell’attenzione, che guardava al futuro, laddove per “moderazione” non deve intendersi la posizione dei pavidi, ma l’idea di fondo, valida per ogni contesto umano, della tessitura paziente del futuro, della costruzione graduale ed intelligente di nuovi ed avanzati equilibri politici e sociali, che devono avere comunque visibile e concreto riscontro nella realtà.
Non basta annunciare politiche avanzate sul piano sociale, ad esempio, se poi agli annunci non corrispondono i fatti. Lo stesso dicasi per le politiche cosiddette liberali o liberiste.
Se la vicenda politica di Moro non è trasferibile nell’oggi e sembra appartenere alla nostra preistoria politica, non per questo non hanno valore assoluto i suoi insegnamenti circa il modo come far avanzare i processi politici. Alla superficialità ed alla mancanza di valori di questa stagione italiana, dove ai processi si sostituiscono le iniziative estemporanee o gli scomposti movimenti che, per loro natura, sono fragili ed inconsistenti, può contrapporsi virtuosamente la lezione di Moro, che è di monito. La democrazia si salva e progredisce se c’è senso di responsabilità, se nascerà un nuovo senso del dovere. Non mi riferisco alla democrazia formale, ma a quella sostanziale, che vuole ogni essere umano unico ed irripetibile, intercettato nei suoi concreti bisogni spirituali e materiali, cittadino e non suddito.
I valori cattolici possono dare un importante contributo al farsi della democrazia sostanziale, nella speranza che anch’essi non finiscano con lo stemperarsi, perdere sapore, rifluire nel privato, a tutto vantaggio di teorie sull’uomo che non ne rispettano l’incommensurabile dignità.
Salvatore Bernocco
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ANNO XXII - N.4