PER SEMPRE O FINCHÉ DURA

Mi capita spesso di incontrare genitori della mia età, felicemente sposati, le cui figlie/i in età da marito/moglie scelgono di convivere.
“Adesso si usa così...”, “Eppure da noi hanno avuto un esempio diverso!”, “Cosa ci possiamo fare?”. La domanda, scettica, rassegnata, o accorata a seconda dei casi, rimbalza dai genitori ai parroci agli educatori, spesso agli stessi giovani.
Eppure, lo abbiamo detto nella prima puntata di questo nostro dialogo, il “per sempre” è una caratteristica inestirpabile del vero amore tra un uomo e una donna.
Del resto non lo ritroviamo solo nella formula del rito religioso del matrimonio(“Con la grazia di Cristo prometto di esserti fedele sempre...”), ma ne rintracciamo un’eco anche nelle norme del Codice Civile (quando, a proposito di matrimonio, si parla di “obbligo reciproco alla fedeltà”, art. 143). Non c’è nessuno al mondo che non desideri essere definitivamente amato per poter, a sua volta, amare definitivamente. La misura con cui il Creatore ha “tarato” il cuore dell’uomo è infatti l’infinito. Di fronte a coloro che amiamo di più sentiamo come profondamente ingiusta la parola fine: “Ama chi dice all’altro: “Tu non puoi morire”” (Gabriel Marcel).
Ma se le cose stanno così, perché ci si sposa sempre di meno? E’ un problema di crescente individualismo, di maggior precarietà nelle relazioni affettive e di un preoccupante deficit di speranza. L’idea vincente, nelle nostre società avanzate, è quella di libertà come assenza di legami. Si preferiscono rapporti “corti” a rapporti “lunghi”, non solo in chiave temporale ma anche di coinvolgimento personale. Il modello mercantile del contratto è elevato a paradigma di ogni relazione. Così alla logica del dono si sostituisce quella del calcolo, del do ut des. “Solo gli uomini – osserva acutamente Chesterton – sono in grado di lanciare i loro cuori oltre tutti i calcoli, per conquistare ciò che il cuore desidera”. Ma il desiderio dell’uomo non può essere ingannato troppo a lungo impunemente: un’insospettata conferma ci è arrivata anche dal recente rapporto Censis. Se si vuole saziare la fame dell’uomo propinandogli in continuazione cibi stuzzicanti ma di scarso valore nutritivo, il suo desiderio languirà fino a spegnersi.
“Sarà - insistono i più disincantati – ma il mondo è cambiato. Nessuno accetta più di fare sacrifici”.
“Senza impegno” ci assicurano i venditori quando ci vogliono rifilare un prodotto. “Senza impegno” sembra essere diventata la massima aspirazione di molti giovani. Perché l’”impegno” mette paura.
Sentite cosa dice a questo proposito Chesterton: “L’uomo che prende un impegno definitivo prende un appuntamento con se stesso in qualche momento o luogo distante. Il pericolo è che egli stesso non riesca a mantenerlo. E nei tempi moderni questo terrore di se stessi, della propria debolezza e mutabilità, è cresciuto pericolosamente, ed è questa la base effettiva dell’obiezione ai voti di qualsiasi genere”.
Facciamo come la volpe della favola di Esopo: siccome non riusciva a raggiungere l’uva, ci rinunciò dicendo che era acerba. In questo modo noi, insieme con l’ampiezza del desiderio, riduciamo la nostra umanità.
Ma Gesù è venuto per salvarla. Cristo e la sua Chiesa fanno il tifo per la grandezza dell’uomo: per questo ci sono i sacramenti.
Quello del matrimonio si fonda sull’incrollabile certezza di cui parla san Paolo: “Colui che ha iniziato in voi quest’opera buona la porterà a compimento” (Filippesi 1,6).
Mentre vi scrivo queste cose ho in mente i volti concreti di tante spose e di tanti sposi fedeli che il mondo giudica “eroici”, ma che sono semplicemente docili alla grazia del sacramento. Certo questo mette in conto il perdono, un altro “ingrediente” dell’amore tanto decisivo quanto sconosciuto. Chi non sa perdonare non ama. Ne parleremo ancora e più diffusamente.


Angelo Scola
Arcivescovo di Milano