La lettera pastorale del vescovo don Gino per l’anno 2014-2015

«E SI PRESE CURA DI LUI - EDUCARE ALLA CARITÀ» 

Mons. Luigi Martella ha dato alle stampe e consegnato alla riflessione comunitaria la lettera pastorale per l’anno 2014-2015, dal titolo «E si prese cura di lui –Educare alla carità». L’espressione «e si prese cura di lui» rimanda alla parabola del Buon Samaritano, il quale si prese cura dell’uomo che era stato spogliato dei suoi beni da dei furfanti, ridotto in fin di vita e abbandonato sulla strada che da Gerusalemme conduce a Gerico. Gesù risponde con la parabola di cui stiamo trattando ad un dottore della legge che gli chiese chi fosse il suo prossimo. E non va per il sottile, mettendo sotto accusa certe figure che avrebbero dovuto prendersi cura dell’uomo e che invece lo videro ma passarono oltre: il sacerdote ed il levita. Invece uno scomunicato, ««un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno»» (Lc 10, 33-35). Il dottore della legge è quindi costretto ad ammettere che il prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti è il Samaritano, cioè chi ha avuto compassione di quel pover’uomo. Gesù lo invita a fare come fece il Samaritano, cioè ad essere concreto nella carità, semmai a parlare meno di Dio, a teologizzare di meno, a mettere in pratica il comandamento dell’amore, quel comandamento che supera e contiene tutti gli altri. Oggi potremmo dire che l’invito che ci rivolge Gesù è a non dirci cristiani, ma ad esserlo con i fatti, nella realtà di ogni giorno, che spesso ci fa incontrare persone in difficoltà e alle quali non dedichiamo nemmeno un minuto del nostro tempo. Anzi. Ci mettiamo sulla difensiva. Tagliamo corto. È come se avessimo timore che possano interpellarci, che possano chiederci qualcosa. Perché questo? La risposta è semplice: perché siamo un concentrato di meschinità e di piccoli egoismi. È come se temessimo che il povero possa contribuire ad impoverirci invece che contribuire ad arricchirci. La cosa sconcertante è che non abbiamo ancora capito nulla o molto poco delle parole del Signore, il quale afferma, in sintesi, che la strada che conduce alla Vita non è lastricata di pie intenzioni, di interminabili preghiere, di riti, ma del bene fatto al nostro prossimo, a prescindere dalle sue qualità positive o negative. Il Samaritano, quando si accostò al pover’uomo, non si accertò prima di intervenire se quel tale fosse degno del suo aiuto, se fosse omosessuale o no, se fosse divorziato o separato o risposato, se fosse un poco di buono o un angelo. Egli si occupò di lui perché era un uomo in difficoltà, bisognoso di soccorso. Punto. Cosa facciamo invece noi, buoni cristiani che andiamo a messa tutte le domeniche (o quasi) senza interiorizzare un bel niente? Appena mettiamo i piedi fuori del luogo sacro, ci desacralizziamo in un attimo, rimuoviamo il messaggio evangelico. Dopo esserci battuti il petto e recitato il mea culpa, battiamo le teste del nostro prossimo, comportandoci alla stessa stregua dei briganti o come il levita ed il sacerdote. Diamo le spalle o guardiamo altrove. Non siamo capaci di perdono. Critichiamo senza cognizione di causa. Giudichiamo senza tatto e misericordia. Siamo cellule impazzite della società, seminatori di zizzania, amanti del denaro, del potere. Riteniamo di esserci messi a posto con la coscienza in virtù dell’assolvimento di un obbligo, quello di andare a messa, mentre la Parola non ha niente a che fare con i doveri, le prescrizioni, i cerimoniali, la deontologia, il perbenismo. La Parola ha a che vedere con l’amore e con nient’altro. Non facciamoci illusioni, quindi. Non ci salveremo per la quantità di concelebrazioni eucaristiche ascoltate, ma solo se avremo reso gli altri, chi ci accosta, più felice o meno infelice. Il resto sono suggestioni diaboliche.

Salvatore Bernocco